Lo studio

Giotto, la “normalità eccezionale” di una cooperativa in carcere

Vera Negri Zamagni, storica dell'Economia, ha analizzato per due anni il lavoro della cooperativa sociale nata nell'istituto di pena di Padova. Ne ha tratto un libro per l'editrice Il Mulino. Spiega a VITA: «Dovrebbe essere normale che nelle carceri si dia lavoro alle persone detenute, invece ahimè non lo è. Mi è sembrato importante, con questo mio lavoro, mostrare che si può fare e come si può fare»

di Ilaria Dioguardi

La cooperativa sociale Giotto «oggi non esisterebbe, se le persone che ne hanno dato il via nel lontano 1986 non avessero incontrato la figura di un prete straordinario impegnato con la vita fino nel midollo. Si tratta del servo di Dio don Luigi Giussani. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo sa bene quanto amasse la vita. Ci ripeteva spesso: “Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione”». Lo scrivono Nicola Boscoletto e Andrea Basso nella prefazione del libro La cooperativa sociale Giotto. La normalità eccezionale (casa editrice Il Mulino) di Vera Zamagni, studiosa di storia economica e docente all’Università di Bologna e al Sais-Europe di Bologna.

A metà degli anni Ottanta una piccola compagnia di laureati in Scienze agrarie e forestali decide di fondare una cooperativa per offrire servizi di creazione e manutenzione di parchi e giardini. Nacque così Giotto. Zamagni, perché ha scelto di dedicare un libro a questa cooperativa sociale?

Sono 30 anni che studio il movimento cooperativo e ne ho scritto tanto, ma mai di cooperative sociali. Ero incuriosita. Poi Giotto ha una caratteristica molto particolare, è una cooperativa di tipo B: mette al lavoro persone svantaggiate di vario genere, tra cui i detenuti, come quelli del carcere di Padova. Molto spesso le cooperative danno lavoro ai carcerati, ma a quelli che possono uscire di giorno o che sono già usciti dal carcere, quindi li mettono al lavoro fuori. Questa cooperativa ha procurato lavori di svariato genere dentro il carcere. Ad esempio, c’è una pasticceria che produce dolci di vari tipi, in particolare i panettoni che vengono venduti in tutta Italia (nell’ultimo periodo hanno avuto molto da fare). E poi anche le colombe a Pasqua e tanti altri dolci che vendono tutto l’anno.

La professoressa Vera Zamagni

Quali altri lavori si fanno nel carcere Due Palazzi di Padova, grazie alla cooperativa Giotto, che vi opera da circa 30 anni?

Il montaggio di vari prodotti, dalle valige alle biciclette, ai gioielli. In tempi più recenti, anche il lavoro di contact center, che loro hanno anche fuori: la cooperativa oggi occupa 600 addetti, di cui più di una metà con qualche tipo di disabilità. La cooperativa non può lavorare solo in carcere chiaramente, ha anche tutta un’attività fuori, in uffici e in ambiti edilizi diversi dal carcere. Giotto si occupa anche di gardening: mette a posto i parchi e i giardini, fa lavori di piantumazione. E si occupa anche della raccolta dei rifiuti. Questa cooperativa trova un lavoro per includere: questo è il suo marchio.

Nicola Boscoletto, uno dei fondatori di Giotto, e Riccardo Bonacina, fondatore di VITA

«Dal 2015 Giotto è tra i principali promotori del “Coordinamento Carcere Due Palazzi”, che riunisce circa una ventina di realtà sociali attive all’interno delle carceri patavine», si legge nel capitolo settimo “La sussidiarietà circolare”, nel quale si parla delle collaborazioni che la cooperativa mantiene con i più svariati soggetti: profit, non profit e cooperativi. Quanti sono i detenuti che, nel carcere di Padova, sono coinvolti in lavori tramite la cooperativa Giotto?

Più di un centinaio, hanno dei contratti nazionali, come tutti i detenuti che lavorano. Dipende anche dalla situazione del carcere perché, ovviamente, non tutti i carcerati possono essere messi al lavoro. Ma lavorano anche degli ergastolani: non dipende dalla lunghezza della pena, ma dal tipo di persona. Anche il carcere di Opera, vicino Milano, dà lavoro a detenuti; in molti casi, i numeri dei ristretti che hanno un lavoro in carcere sono piccoli. Quello della cooperativa Giotto è un caso molto particolare, ha fatto anche un lavoro culturale molto importante con i ministeri, per varare leggi che permettano questo, anche se poi, in realtà, non sono tante le carceri che sono andate in questa direzione. C’è, per esempio, un bellissimo accordo, che spiego nel libro, con l’istituto penitenziario di Alcamo in Sicilia. Però, carceri in cui ci sono accordi di questo tipo sono una rarità.

Concerto d’orchestra giovanile I Polllicini in carcere in onore di Papa Francesco (Padova, 13 dicembre 2015)

Come spiega anche con il sottotitolo del suo libro: “La normalità eccezionale”.

Dovrebbe essere normale che nelle carceri si dia lavoro alle persone detenute, invece ahimè non lo è. Mi è sembrato importante, con questo libro, mostrare che si può fare e come si può fare.

Con il lavoro in carcere si abbatte anche, in maniera importante, la recidiva…

Sì, è dimostrato scientificamente. Ma è una lezione che non si impara perché, ripeto, non sono tante le carceri che danno questa possibilità ai detenuti. Per quello ho messo questo sottotitolo “La normalità eccezionale”: dovrebbe essere normale non far “ricadere” i carcerati, invece non lo è. Mi è parso molto opportuno far vedere che, in realtà, si potrebbe, se si volesse. È molto importante guadagnare soldi per le persone in carcere: possono aiutare la famiglia, possono pagare un avvocato che li difenda un po’ meglio.

Operatori e detenuti volontari al Meeting di Rimini, agosto 2010

Nel suo lavoro spiega anche come si riesca a tenere in piedi, e saldamente, la cooperativa Giotto.

Sì, ci riesce facendo continui progetti di investimento. Giotto deve investire costantemente per rendere produttivi i progetti sia in carcere, sia fuori. Investe molto, sia in formazione che in strutture fisiche.

Questo libro è il frutto di due anni di lavoro.

Ho letto molti documenti della cooperativa e ho intervistato più di 30 soggetti che hanno in mano la direzione di tutte le varie aree di Giotto.

Foto di archivio della cooperativa sociale Giotto e dell’intervistata.
Nella foto di apertura, il primo a sinistra è Nicola Boscoletto, uno dei soci fondatori della cooperativa, a colloquio con i detenuti del carcere della Cook County Jail di Chicago (settembre 2014). La foto con Riccardo Bonacina è di VITA.

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