Ho partecipato anche quest’anno al seminario ideato da “Redattore sociale” a Milano. Il tema, “Giornalisti nonostante”, la dice lunga sul momento che stiamo attraversando. In sala, nel bel centro della cooperativa “La cordata”, tanti giovani delle scuole di giornalismo, ma anche tante teste imbiancate di colleghi che, come me, hanno superato i cinquanta eppure sono lì, sempre lì, lì nel mezzo, come Oriali in “Una vita da mediano” del grande Ligabue.
La novità, si fa per dire, è che c’è la crisi dell’editoria. E dunque ancor meno spazio per chi si vuole occupare seriamente di informazione sociale, di temi scomodi e soprattutto privi di sponsor e di occasioni di marketing. Per un’oretta, ad esempio, Massimo Cirri e Alice Banfi hanno parlato di “matti”, e hanno ragionato attorno alle parole, alle definizioni che non ci sono. E in mattinata io ho “intervistato” una dolcemente durissima assistente sociale, Gabriella Gabrielli, che ha sferzato senza pietà il nostro modo di fare giornalismo, sempre a caccia della “storia” da raccontare, violando privacy, frugando nelle vicende personali dei minori e delle famiglie, pieni di pre-giudizi, incapaci di ascoltare, ma pronti a scrivere sentenze e titoli pieni di stereotipi.
Tutto vero, tutto interessante. Ma il punto, drammatico, è che non c’è più profit. Non dico lauto guadagno da giornalisti d’altri tempi (che peraltro godevano, come rileva Finzi di Astra, di una maggiore considerazione sociale rispetto al giudizio pessimo dei giorni d’oggi), ma neppure redditi minimi da sussistenza. Ho assistito al racconto di esperienze di lavoro praticamente gratuito, fatto da giovani colleghi che pur di scrivere e di continuare a esistere come giornalisti accettano di produrre lavoro professionalmente valido senza alcun compenso o quasi.
Un giornalismo così impoverito quale futuro può avere? In che modo può contribuire a rendere davvero visibile il mondo del non profit, del volontariato, del terzo settore? Quanto a lungo può resistere in mezzo al guado, anzi annaspando in acque melmose? Una società che non riesce a costruire professionisti indipendenti, bravi, preparati, sereni perché non indigenti, può sentirsi sicura della propria democrazia di informazione?
La trasformazione tecnologica non aiuta, per il momento, anche se in futuro potrebbe essere la vera chance. Ma oggi il proliferare di giornalismo improvvisato on line continua a svalutare il mestiere e la qualità. Le fonti non si fidano, si chiudono a riccio, le notizie sono omologate, la marginalità è quasi assicurata.
Non ho una risposta, se non quella della difesa della propria dignità personale. Non è obbligatorio fare il giornalista, tanto meno occuparsi di informazione sociale. Ma se si decide di farlo e di stare dalla parte di chi non ha voce, probabilmente bisogna attrezzarsi di conseguenza, e cominciare a ricostruire reti in grado di garantire almeno la sopravvivenza, la sostenibilità dei progetti, la qualità del lavoro. Vita, non a caso, è uno dei pochissimi punti di riferimento. Ma i grandi editori dovrebbero riflettere (ovviamente non partecipano a questi incontri, dove potrebbero incrociare talenti ed esperienze di vita vera) e coltivare un vivaio professionale autentico, onesto, privo di malizia. L’Ordine e le scuole di giornalismo dovrebbero lavorare quasi esclusivamente per dare garanzie a chi, adesso, lavora “not for profit”. Prima che sia troppo tardi.
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