Formazione
Giornalisti senza giornali… ma con una newsletter
Niente carta stampata, né magazine online, ma newsletter attraverso cui comunicare ad una community selezionata. È questa una nuova tendenza nel mondo dell’informazione. Qui raccontiamo i segreti di tre professionisti di successo
di Redazione
Per 15 anni Corinna De Cesare è stata giornalista del Corriere della Sera e nel 2022 ha dato le dimissioni per dedicarsi al suo progetto editoriale thePeriod: una newsletter specifica sui temi di sua competenza. Forse lei rappresenta il caso più emblematico di una nuova tendenza: giornalisti senza giornali, ma con una newsletter attraverso la quale comunicare ad una community selezionata. Una scelta, la sua, condivisa da altri giornalisti, come Davide Piacenza e Alessandro Banfi. Raccontiamo qui le loro esperienze.
thePeriod
Corinna De Cesare, per tornare all’inizio, ha lanciato thePeriod a fine 2019 e nel corso degli anni il suo è diventato un progetto editoriale che mira a raccontare i fatti da un altro punto di vista. «Pur essendo, infatti, le donne forti lettrici di libri – spiega- si informano poco sui quotidiani e sui media generalisti mainstream. Perché? Perché non si vedono, non si sentono rappresentate e se lo sono, sono spesso stereotipate, sessualizzate o raccontate come vittime e madri». Secondo l’osservatorio europeo di giornalismo, solo il 21% di articoli è scritto da una donna e questo influenza il modo in cui le notizie arrivano a noi, spesso veicolate dallo sguardo maschile.
ThePeriod cerca proprio di cambiare lo sguardo sull’attualità. La newsletter è diventata nel corso del tempo un appuntamento fisso per una community di oltre 13 mila iscritti, un punto e a capo nella narrazione dei fatti e nella modalità di fare giornalismo in Italia. Sono i lettori a sostenere economicamente il progetto e i contenuti, attraverso l’iscrizione alla membership, la partecipazione al bookclub e ai corsi. Tra le molte attività ha anche messo a punto una formazione che insegna i passi per compiere una scelta come la sua. Tra le materie: come costruire la tua community di riferimento (attraverso i social, le newsletter, i podcast e le basi di grafica), come sfruttare le proprie competenze e la propria storia professionale per creare un progetto innovativo e approfittare delle debolezze del sistema dei media generalisti per aprirsi un varco/campo di attività. «Questo corso – chiarisce – è adatto a chi ha accumulato esperienze giornalistiche, ma è stanco del modo di lavorare delle aziende editoriali e di essere pagato ogni tre mesi. A chi è stufo di scrivere di argomenti che non trova interessanti, a chi vuole sfruttare le proprie competenze per il giornalismo ma non sa come». thePeriod è un progetto di divulgazione culturale in continua espansione e propone anche pacchetti di abbonamenti per aziende, podcast, consulenza e formazione in ambito diversity.
La Versione di Banfi
Alessandro Banfi è stato Direttore di TgCom24, ed è stato per più di 10 anni autore della trasmissione di approfondimento di seconda serata su Canale 5 Matrix; ha insegnato alla scuola di scrittura Holden di Torino, ha scritto per il Corriere della Sera. Nel febbraio 2021 ha messo in piedi la rassegna stampa a pagamento “La Versione di Banfi” (titolo di un suo programma tv del 2011). «La mia esperienza con subastck.com nasce per caso. Ho sempre fatto rassegne stampa in radio e in televisione. Ho sempre avuto la passione di leggere i giornali “per gli altri”. Una volta lasciata la militanza attiva in tv, mi sono trovato a buttar giù un po’ di note e citazioni ogni mattina per amici e parenti, spedendole via email ad un piccolo indirizzario. Mio figlio Vittorio, che lavora da anni nel mondo digitale a San Francisco, mi ha segnalato la piattaforma, substack.com, sostenendo che il mio “hobby” da veterano del giornalismo poteva diventare una nuova occupazione». Così ha provato: «il primo anno ho mandato la mia newsletter quotidiana (riposo solo il sabato) gratuitamente. C’è stata una crescita immediata e quando sono arrivato a tremila abbonati (nessuna mailing list comprata, nessuna pubblicità), l’ho lasciata aperta a tutti solo il mercoledì. Oggi ho 700 abbonati paganti (costo: 50 euro all’anno o 5 al mese) e 2300 free».
La formula, racconta Banfi, è molto semplice: substack fornisce la griglia grafica, gli strumenti per pubblicare e invia simultaneamente le e-mail. La gestione, anche degli abbonamenti, è molto semplice. «Substack è gratuito fino a che non si hanno abbonamenti a pagamento, da quel momento prende una piccola percentuale per il servizio. Nella dashboard offre all’autore anche una serie di servizi per capire quali siano i post di maggior successo, quanto vengano lette le varie newsletter, eccetera. C’è anche la possibilità di offrire podcast ai propri abbonati. Da pochi giorni substack ha rilasciato anche un sistema per creare una chat con i propri seguaci attraverso l’app. Per ora personalmente non l’ho acceso, perché non voglio farmi prendere da un altro impegno».
Il grande vantaggio, secondo l’ex direttore dei TgCom24, «è quello di essere totalmente liberi. Nessun editore, nessun vincolo pubblicitario, nessuna ansia da clickbait. L’unico vincolo è quello con i propri lettori abbonati. Se hai qualcosa da dire e ci sono persone interessate a quello che puoi scrivere, il mezzo della piattaforma per newsletter è perfetto. Salta la mediazione di redazioni, direttori, editori, finanziatori, inserzionisti… La criticità è, dall’altra parte, proprio quella di essere da soli: nelle redazioni si discute, si misura la credibilità delle proprie opinioni, l’opportunità di certe invettive… Qui ci vuole un supplemento di equilibrio e auto controllo. Il confronto avviene, ma con i propri abbonati e… a cose fatte».
Culture Wars
«Io ho iniziato a fare questo mestiere in una redazione nel 2013, e fino al 2021 ho sempre lavorato nelle redazioni, da staff writer, per dirla all’americana», racconta Davide Piacenza. «Fino a poco tempo fa, per me, il “giornalismo senza giornale” semplicemente non esisteva. Senonché nelle redazioni, specie negli ultimi anni, ho assistito a un flusso in crescita di persone che andavano nella direzione opposta a quella di tanti aspiranti giornalisti: “posti fissi” che diventavano freelance, redattori che si dedicavano al loro progetto personale, e anche testate che si affidavano sempre più a esterni, soprattutto per questioni di costi». Nel 2021, un suo amico, uno di quegli ex “posti fissi” diventati freelance di successo, gli ha domandato: «Scusa, ma perché non provi ad aprire una newsletter su questo?». E pronti via: è stata la genesi di Culture Wars, una newsletter dedicata ai discorsi intorno al cosiddetto “politicamente corretto”, la “cancel culture”. La newsletter di Piacenza si presenza così: “Culture Wars esce ogni venerdì e ti racconta come il “politicamente corretto” (e lo scorretto), gli scontri di codici sociali e gli algoritmi stanno cambiando il mondo”.
«Mi sono sempre occupato di politica e cultura, anche quando lavoravo in redazione, e considerando anche qualche follower accumulato sui social mi sono trovato un pubblico da cui partire. Questo ha aiutato, ma credo che la cosa più importante sia avere un’idea originale e ben delimitata: là fuori da anni ormai è pieno di rassegne generiche e spunti su temi allargati che si somigliano un po’ tutte. Penso che il pregio di Culture Wars invece sia proprio parlare a una persona specifica: quella che vuole capire dibattiti, spesso molto surriscaldati, in cui si imbatte su Twitter o su Instagram, e da dove vengono».
Da quando ha lasciato il suo lavoro “fisso” è trascorso meno di un anno, e finora, dice, il bilancio è stato molto positivo. «Investendo niente altro che poche decine di euro in tentativi artigianali di sponsorizzazione, oggi la newsletter ha superato i 1500 iscritti, ha un tasso di aperture superiore alla media e – soprattutto – ha già una piccola community affiatata di lettori che intervengono, commentano raccontando esperienze. Ho anche raccolto finanziamenti sufficienti a sottoscrivere l’abbonamento a una nuova piattaforma di invio, Ghost, molto usata dai freelance statunitensi. Insomma, sono contento. Dopodiché certo, Culture Wars per me rimane molto più un hobby che un “lavoro” in senso stretto, e di certo al momento non è un’occupazione che mi permetterebbe di vivere di questo. Ma un domani, chissà: le cose cambiano e le opportunità sono dietro l’angolo, come ho scoperto da quando sono diventato un freelance».
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