Cultura

Giorgio Vasta Tutto in uno sguardo

Le confessioni di uno scrittore rivelazione del 2010

di Marco Dotti

Con il suo libro «Spaesamento» ha scavato la realtà che aveva intorno a lui, nella sua Palermo. «E ho capito che quello di cui c’è bisogno è la disponibilità di uno sguardo» Palermo è una città distante. Distante, nell’immaginario e nella realtà, tanto dal centro politico quanto da quello economico e culturale d’Italia. Distante da Roma e da Milano, distante da Bologna e Torino. Eppure è proprio da Palermo, luogo esemplare per la storia del nostro Paese, che Giorgio Vasta parte per tracciare un lungo itinerario di rabbia. Il suo Spaesamento, da poco edito per i “tipi” di Laterza, figura già tra i libri più apprezzati del 2010, e racconta l’incapacità del protagonista di rapportarsi con un luogo e con un tempo di cui nessuno sembra più possedere le giuste coordinate. Necessario, osserva l’autore, riconvertire quella rabbia ingenua e farla, in qualche modo, maturare, riportandola a livello delle cose, per darle uno scopo e un senso.
Vita: A proposito di Palermo, la sua città natale, l’espressione che le viene di usare in apertura del suo libro è «rabbia bianca». Che cosa intende esprimere?
Giorgio Vasta: Nel senso comune la rabbia viene descritta come uno stato d’animo disarticolato, caotico, tutt’altro che razionale, che dà luogo a comportamenti anch’essi disarticolati. Da parte mia, ho invece cercato di frugare all’interno della moltitudine di sentimenti che compongono le nostre “rabbie quotidiane”. Mi sono quindi reso conto che la rabbia disarticolata è, nella maggior parte dei casi, regressiva e infantile, ma che ciò nonostante appartiene all’umano. A me, però, interessa una rabbia adulta. La rabbia adulta è qualcosa verso cui dovremmo tendere per trasformare il marasma disarticolato che impedisce ogni nostro movimento nel combustibile di un’azione che è a tutti gli effetti un’azione matura. Dovremmo essere capaci di trasformare l’inarticolato in qualcosa che salvi e per certi versi incrementi la nostra capacità di procedere.
Vita: L’altro volto di quella rabbia “infantile” sembra coincidere con una forma di indignazione permanente e socialmente condivisa, ma non ha alcun effetto concreto sulla realtà?
Vasta: Il problema e la domanda che mi hanno mosso coincidono col tentativo di capire quali sono le azioni concrete nutrite dalla rabbia adulta che siano al tempo stesso efficaci e umane. Abbiamo infatti la sensazione di vivere in una frantumazione sociale talmente potente da non riuscire a individuare comportamenti rilevanti, se non quelli simbolici. Anche per questa ragione, io credo che la realtà vada “carotata”, così come si fa con il sottosuolo quando si cercano materie prime, anziché osservata passivamente, come spettatori dinanzi a un flusso che non ci riguarda, ma alla fine ci travolgerà. Con Spaesamento ho tentato di carotare la rabbia e la realtà che mi stavano attorno, un’estate, a Palermo. Nelle Meditazioni milanesi, Carlo Emilio Gadda scrive che bisogna prestare attenzione a tutta la realtà sensibile per operare buone sintesi. Questa richiesta di una disponibilità dello sguardo nei confronti di tutto, senza gerarchie, senza ritenere che esista, nella realtà sensibile, un elemento più degno di nota di un altro è per me un punto di partenza imprescindibile. A decidere di una scala di valori e della sua pregnanza è lo sguardo che le osserva, attraverso il quale si può scoprire che dentro una certa cosa, anche la più umile, sussiste una potenzialità probabilmente inespressa.
Vita: Lei presta molta attenzione al tempo, come elemento chiave per capire la società italiana in questo scorcio di nuovo millennio?
Vasta: Mi viene in mente una scena di Safety Last, un film del 1923 con Harold Lloyd, attore che oggi gode di minore notorietà rispetto a Buster Keaton. In un passaggio del film, Lloyd sta salendo su un grattacielo, ma quando ha quasi raggiunto la cima cade e si aggrappa alla lancetta di un grande orologio che sporge dal grattacielo. Questa è una situazione nella quale, in maniera del tutto preterintenzionale, si fotografa una esperienza del tempo forse più significativa oggi, rispetto a quanto non fosse all’inizio del Ventesimo secolo, quando la sensazione era quella di un movimento continuo. Perché io credo che oggi ci siano generazioni intere che, come Harold Lloyd, rimangono aggrappate a quella lancetta in una sorta di complicità con l’immobile. Perché sì, è vero, queste generazioni rischiano di precipitare e quindi devono restare ferme, ma hanno pure bisogno che quella lancetta non si muova, altrimenti si crolla tutti assieme. È come se, oggi, per più generazioni, tra le quali metto anche la mia – io sono nato nel 1970 -, vi fosse una sospetta collusione: a fronte di un incremento esponenziale di velocità (pensiamo alle comunicazioni, alla rete, a come i nostri messaggi viaggino quasi istantaneamente, in un tempo zero tra elaborazione e fruizione), si ha bisogno che il tempo non scorra. Diversamente precipito in una storicizzazione che mi mette in crisi, perché non capisco come affrontarla. Non so se è soltanto una suggestione narrativa o potrà realmente accadere, ma sarebbe bello che Harold Lloyd si staccasse da quella lancetta, lo lasciasse libero di muoversi e di scorrere, scendesse dal grattacielo e azzardasse un nuovo percorso. Perché accanto alla paura può esserci pure la meraviglia: per questa ragione dovremmo scendere dall’orologio e lasciarlo andare, accettando il fatto che c’è un azzardo, un rischio da correre e che questo non è soltanto un trauma, ma una grandissima occasione.
Vita: Dove sono i padri, dove i figli, finita la stagione delle contestazioni e del disincanto? Che cosa si è perso in questo passaggio?
Vasta: Abbiamo l’abitudine di concentrare lo sguardo soltanto su ciò che si è perso, ed è comprensibile perché il retaggio è così forte che noi guardiamo solo i limiti, guardiamo solo ciò che manca. Accettando il limite, probabilmente, capiremo che non si tratta di “tirare su” a forza dal passato un alfabeto sociale, un alfabeto del rapporto tra le generazioni che appartiene, magari, a chi ha vissuto in un’altra storia, in un altro tempo. Dobbiamo provare a congegnarne un altro, a elaborarne un altro di alfabeto. Per molto tempo si è pensato che l’uccisione dei padri fosse, simbolicamente, la pratica giusta per determinare un passaggio tra le generazioni e una trasmissione dell’esperienza. A me continua a sembrare molto più potente il modo in cui tutto questo viene affrontato da Collodi, nel suo Pinocchio, nel momento in cui si rende conto che invece di uccidere, si può compiere un’azione più dolorosa, meno drastica ma molto più sfumata e complessa che è farsi carico. Pinocchio per uscire dal ventre del pescecane deve mettersi Geppetto sulle spalle e provare a meritarsi il passaggio dal legno alla carne, incarnandosi letteralmente nell’età adulta, portandosi come Enea con Anchise il padre sulle spalle. Aveva capito tutto David Foster Wallace, quando in un’intervista del 1993 diceva: «Noi dobbiamo essere i genitori». È quel “dobbiamo”, la parola centrale. Lo svezzamento non accade più come accadeva un tempo. È una scelta, una decisione, non un processo fisiologico. È scendere dalla lancetta di Harold Lloyd, prendersi i genitori sulle spalle e affrontare cinquemila chilometri di ghiaccio.

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