Vita e lavoro

Gioie (e dolori) di una vita da expat

Partire non è solo un movimento che richiede di prestare attenzione ai dettagli pratici (il passaporto da richiedere, il volo da prenotare, l’alloggio da trovare), ma anche di dare spazio e legittimazione a ciò che si sta vivendo e sentendo. La Cooperativa Sociale Transiti Psicologia d’Espatrio, punta a proporre una maggiore consapevolezza sull’espatrio. Dall’esperienza clinica è nato anche un libro dedicato a chi parte, chi vive e chi torna, ma anche a chi resta e/o vede una o più persone care partire. Anche in erasmus

di Sabina Pignataro

Che siano residenti all’estero da moltissimo o poco tempo, che siano nati all’estero o partiti nel recente passato, l’“Italia fuori dall’Italia” continua a crescere dimostrando dinamicità, creatività e competenze.

Andare “fuori”, migrare, non sono esperienze neutre, ma esperienze che cambiano gli individui, li attraversano  e questi possono essere più o meno attrezzati, possono superare o soccombere, possono venire trasformati o cavalcare i cambiamenti.  Ma cambia anche chi resta a casa ad aspettare e vive un processo migratorio monco, indeterminato, allo stesso tempo non-fi nito e infinito perché, in un certo senso, non vive il tempo migratorio ma lo subisce.

Con l’obiettivo di sensibilizzare rispetto alle tematiche e ai processi psicologici che ruotano attorno all’espatrio è nato il libro “Traiettorie. Guida psicologica all’espatrio”. Uno strumento dedicato a chi parte, chi vive e chi torna, ma anche a chi resta e/o vede una o più persone care partire. Traiettorie è un libro per chi sta vivendo un movimento di espatrio: lo sta progettando, sta vivendo momentaneamente all’estero o si è trasferito fuori dall’Italia in maniera più definitiva, ma anche per chi rientra, ogni tanto o per sempre, o per chi resta e/o vede una o più persone care partire.

Il libro è il prodotto del lavoro di anni condotto dalla Cooperativa Sociale Tpe – Transiti Psicologia d’Espatrio, nata da un progetto del 2017 di Anna Pisterzi. Il progetto si occupa di promuovere la salute psicologica in espatrio, partendo da un’attività clinica e offrendo servizi psicologici dedicati agli italiani all’estero. Negli anni, le psicologhe e gli psicologi della coperativa hanno avuto modo di ascoltare molti pazienti, che riportavano una serie di sintomi e difficoltà legati alla condizione di expat, riassunto spesso come “uno stato di malessere generalizzato”.

Spostarsi, trasferirsi, dislocarsi, inserirsi in un percorso, in una traiettoria, in un flusso. «Ciascuna persona, a seconda di dove il fato l’ha fatta nascere, si muove con maggiore o minore libertà, con un bagaglio e una rete sociale e culturale che possono favorire o ostacolare la buona realizzazione del transito migratorio», osserva l’autrice Anna Pisterzi, psicologa Psicoterapeuta, docente universitaria, divulgatrice. «Si muove con un carico di aspettative personali, familiari, sociali, all’interno di un preciso quadro storico».

E infatti, chiarisce, «le difficoltà che una persona in una traiettoria d’espatrio incontra possono essere legate principalmente allo spaesamento, ossia a quel sentimento di estraneità di non sentirsi appartenenti al nuovo contesto e al contempo perdere alcuni aspetti della propria cultura di origine. Su questo aspetto più ampio si innestano poi i confronti e le differenze di cultura, lingua, valori, visione dell’uomo che poi danno origine a determinati comportamenti e richieste sociali come ad esempio quella di essere sempre disponibili al lavoro come in Usa o di una educazione scolastica focalizzata sulla performance come in Cina».

Affrontare l’incertezza

«È indubbio che spostarsi aumenti la quantità di incertezza a cui si è esposti e, quindi, i conseguenti rischi», prosegue l’esperta. «Come per ogni avventura, il bilanciare prudenza e libertà di esplorazione incoraggia lo sviluppo di un buon equipaggiamento per fronteggiare questi rischi e trarne insegnamento e nuova conoscenza. «Se, da un lato, la totale o insufficiente mancanza di equipaggiamento può aumentare i fattori di rischio, anche l’iper-equipaggiamento e l’iper-protezione rischiano di essere una pessima idea, in quanto amplificano paradossalmente la percezione del pericolo. Attrezzarsi “troppo” (per esempio cercando spasmodicamente informazioni e pareri, pianificando ogni singolo dettaglio etc.) confonde, offuscando la capacità di discriminare, dosare, usare le proprie qualità e scoprirne di nuove».

Ci sono dei momenti, nella storia di vita di ciascuno, che inevitabilmente segnano un prime un dopo. L’espatrio è uno di questi. Chi ha vissuto, sta vivendo o vivrà un’esperienza di espatrio molto probabilmente troverà naturale considerarlo come uno spartiacque.

Chi espatria per una Ong

Espatriare per periodi più o meno lunghi porta sempre con sé l’entusiasmo dell’incontro e il coraggio del progetto. Chi si trova ad operare in contesti critici o ad alta complessità, potrebbe perdere entrambi questi “motori” se non supportati. «Penso ai contesti ad alta complessità la mia mente va innanzitutto alla cooperazione internazionale», sottolinea l’esperta. «Le Ong più grandi e strutturate hanno nel team psicologi per fornire supporto, a richiesta,  durante la missione. Solitamente prima di partire le persone partecipano ad una formazione».  Non è detto che essendo un contesto internazionale lo psicologo sia in lingua madre, è molto probabile che però ci sia almeno un supporto in inglese. Anche i militari hanno internamente  psicologi a cui potrebbero rivolgersi, così come i piloti civili.  «Nella nostra esperienza la questione delicata riguarda il fatto che, a causa di pregiudizi e bias, se la persona dichiara di volere un supporto psicologico in alcuni ambienti si attiva una specie di allerta come se la richiesta fosse correlata ad un problema nell’esecuzione del proprio lavoro e non come una  maggiore consapevolezza del proprio funzionamento mentale. È quindi più facile che una persona che lavora nei 3 ambiti sopra menzionati cerchi un supporto psicologico all’esterno dell’organizzazione per sentirsi più libero nel percorso di cura e allo stesso tempo non finire sotto osservazione pregiudizievole se non sospeso dalle proprie mansioni. Questo sguardo patologizzante nei confronti di chi chiede aiuto in contesti ad alta complessità pone anche un altro problema: un ritardo nella richiesta di aiuto psicologico, questione sì che aumenta i rischi per la persona e per la comunità. Le organizzazioni stanno pian piano prendendo coscienza ma ancora molto resta da fare».

Lo spostamento di una famiglia

Anche lo spostamento di una coppia o di una famiglia è un affare complesso: «può  generare nodi, incomprensioni, visioni anche molto distanti se non si mantiene un dialogo aperto e costante sui pensieri e le emozioni riguardanti ciò che si sta vivendo», osserva Pisterzi. «”Fare una scelta per qualcun altro” evoca in prima battuta pensieri di rinuncia o sacrificio. Vuol dire mettere i bisogni di un’altra persona davanti ai propri e decidere in modo vicario, scegliere per qualcuno, al posto di qualcuno. Questo accade sia quando ci si muove con l’intenzione di migliorare la qualità di vita di figli, partner, famigliari, sia quando ci si muove per assecondare o supportare il progetto di vita di partner, genitori, famigliari». Cosa ben diversa è invece “Fare una scelta con qualcun altro”: «evoca una scelta condivisa, all’interno della quale ci si sente co-attori. È un processo di relazione e di mediazione ideale” che, pertanto, può in parte riuscire e in parte risultare diffcile e risentire della performance dell’espatrio “felice a tutti i costi”, di quella narrazione dominante e positivamente falsata dell’espatrio».

Ci sono poi ruoli e posizioni all’interno delle famiglie – per esempio quelle del figlio o figlia – dove il “per chi” e il “con chi” si fondono. «I figli hanno, infatti, una limitata possibilità di scelta rispetto alle decisioni d’espatrio, anche quando la scelta è presa per loro. La decisione di quale paese, quale città, quale scuola, quale casa, la gestione dei tempi e l’organizzazione dello spostamento sono compiti il cui peso grava necessariamente sui genitori, che si orientano in base a ciò che conoscono e desiderano per sé e per il proprio figlio o figlia.

Inoltre, con chi richiama anche la domanda contraria: “senza chi” parto? «Chi sono le persone che lascio e quali sentimenti e pensieri mi suscita allontanarmene?», osserva l’autrice. «Far emergere questi interrogativi e tentare di darsi delle risposte può ampliare la visuale sulla propria storia di espatrio e il modo in cui si vive questo processo. Domandandoci per chi o con chi mi muovo, parliamo delle motivazioni, dei legami e delle relazioni in cui ciascuno vive e, a vario titolo e in diverso grado, si riconosce. Porsi questa domanda dal punto di vista psicologico comporta l’inizio di un racconto su di sé».

La fascia che maggiormente si rivolge a Transiti è quella di giovani, neo genitori, lavoratori, con un’età compresa tra i 30 e i 45 anni, con 5-10 anni di esperienza e un aumento di responsabilità sia verso il lavoro che verso la famiglia, anche di origine.

Il delicato momento del rimpatrio

Un altro aspetto delicato è il rimpatrio. «Il rimpatrio dopo un periodo di espatrio, soprattutto dopo alcuni anni,  è di fatto un  nuovo espatrio», chiarisce Pisterzi.« Noi non siamo più gli stessi e anche il contesto culturale è mutato. La cultura dei posti è un qualcosa di vivo che evolve (o involve). L’esperienza di una vita in un altro luogo ci arricchisce ma appunto ci cambia in modo più marcatamente evidente che se fossimo rimasti nel nostro paese di origine. È dunque un nuovo incontro che spesso viene sottovalutato».
«Dall’Italia ci chiede aiuto soprattutto chi rimpatria.», conclude l’esperta. «C’è ancora poca consapevolezza che possa essere una tappa importante per l’individuo e per il suo sviluppo e che quindi come tale andrebbe preparata».

Uno sguardo anche agli erasmus

Il libro è stato costruito in tale prospettiva.  «In primavera realizzeremo a Torino  un percorso pilota di prevenzione in collaborazione con il polo del 900  per i giovani universitari che, in partenza per il programma Erasmus, stanno per affrontare una prima esperienza di espatrio. Avendo in mente che diversi giovani partono dopo il diploma o la qualifica professionale stiamo ragionando su come  proporre seminari per affrontare equipaggiati la mobilità internazionale nelle scuole e nelle agenzie formative in integrazione ai programmi di orientamento al lavoro e allo studio».

Foto in apertura, ConvertKit by Unsplash


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