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Gioco: se la vera posta è la vita
L'intervista di Alessandro Zaccuri per Avvenire a Marco Dotti. Su gambling e gap
Gioco non è, su questo non si discute. Ma se non fosse neppure azzardo? A porsi la domanda è un giovane filosofo, Marco Dotti, che ha appena pubblicato due libri dedicati all’analisi e all’interpretazione della ludopatia. Il primo, Slot City (Round Robin, pagine 120, euro 12) riprende l’inchiesta giornalistica che lo stesso Dotti ha condotto per il mensile Vita: un viaggio documentato e polemico tra le ossessioni del videopoker e le ambiguità di una regolamentazione che – come puntualmente dimostrato da Avvenire – sfrutta debolezze non solo psicologiche.
Il titolo dell’altro saggio è invece una citazione da Montale, Il calcolo dei dadi (O barra O, pagine 112, euro 12), e allude a un territorio in parte imprevedibile. Quello, cioè, del significato simbolico che l’azzardo riveste in ogni cultura e che le slot machine nostre contemporanee stanno riducendo a cinico procedimento combinatorio. «Nella riflessione di Pascal e nelle pagine di Dostoevskij – spiega Dotti – gettare i dadi significa accettare il rischio che ci appartiene come esseri umani. Un’apertura al mondo: drammatica, ma inevitabile. E che non ha nulla a che vedere con quanto sta accadendo intorno a noi».
Sì, ma che cosa sta accadendo esattamente?
«Ci stiamo illudendo di calcolare qualcosa che è per sua natura incalcolabile. La nostra necessità di metterci in gioco, appunto, di affidare noi stessi a quella che Pascal considerava la scommessa decisiva di ogni esistenza umana. A questa realtà misteriosa rinvia, per esempio, il racconto evangelico della Passione. Anche lì, mentre Cristo muore sulla Croce, c’è qualcuno che gioca a dadi: sono i soldati, intenti a dividersi la sua tunica e del tutto ignari dell’evento che si sta compiendo sul Golgota, a due passi da loro. L’azzardo (o, se si preferisce, l’alea) ha sempre a che vedere con questa ignoranza della vera posta in gioco».
E quale sarebbe?
«La vita, semplicemente. Il giocatore è alle prese con ciò che sfugge al gioco. La tunica di Gesù è tessuta in un’unica pezza di stoffa, non può essere divisa e, quindi, va assegnata tutta intera, consegnandosi al responso dei dadi. L’uomo può spingersi fin qui, il resto sta a Dio, che sta sopra, sulla Croce, e di sicuro non sta giocando. Basta rileggere Baudelaire per capire come lanciare i dadi corrisponda in realtà a rilanciare il proprio destino. Tutto questo non può essere ingabbiato in un meccanismo di schede e microchip. Una simile chiusura, infatti, non contraddice solamente il gioco, ma impoverisce l’uomo stesso, privandolo della dimensione metafisica del rischio».
Sta dicendo che l’azzardo è troppo importante per essere lasciato alle macchinette?
«Sì, perché smuove una serie di elementi simbolici di cui non possiamo fare a meno. Ho in mente le osservazioni di un pensatore come Humbert Fink a proposito delle esperienze fondamentali della vita umana: la morte, il lavoro, la festa, lo scherzo. Bene, il gioco le contiene tutte e nel contempo le trasfigura. Dai dadi si attende un responso la cui natura coincide intimamente con la salvezza. Chi si affida, in definitiva, si affida sempre alla grazia per accedere alla dimensione della speranza. La brutta parodia del gioco di cui siamo vittime è un furto di speranza».
Vale per ogni azzardo, non crede?
«L’importante è ammettere che, quando si affrontano questi temi, occorre dotarsi di una strumentazione che non sia soltanto di tipo clinico o genericamente moralistico. Il gioco riguarda qualcosa di più profondo e, ripeto, irrinunciabile. Fu Gramsci a notare come la famosa definizione di “oppio dei popoli” applicata da Marx alla religione derivi da un brano di Balzac sulle lotterie. Questo per dire che il problema non nasce oggi, ma negli ultimi tempi ha subìto un’accelerazione impressionante. La degenerazione dell’azzardo si inserisce in un contesto di impoverimento antropologico che ha completamente dimenticato l’appello, per quanto implicito, alla speranza. Nella descrizione che ne fa Matilde Serao, il lotto napoletano conserva ancora una dimensione festiva, di accettabile evasione dalla quotidianità. Ma nel momento in cui le sale-gioco invadono il centro delle nostre città, distruggendo il tessuto stesso dell’aggregazione, ogni orizzonte festivo viene cancellato. Resta la perversione di una struttura umana originaria. Potentissima e, proprio per questo, da riconsiderare in modo consapevole».
La vera scommessa, insomma, consiste nel sapere che si sta scommettendo?
«I dadi non hanno alcun valore fuori dal vuoto in cui vengono gettati. E il vuoto è uno spazio di libertà, il luogo in cui tutto è ancora possibile. L’azzardo autentico, che nel corso della storia è stato investito addirittura di connotazioni mistiche, riconosce la necessità di questo “fare il vuoto” in vista del rischio supremo contenuto nella scommessa di Pascal: che la realtà abbia o non abbia senso. Per questo, mentre patisce sulla Croce, Gesù permette che i soldati continuino a giocare».
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