Cultura
Giochi di parole sull’immigrazione
Ho letto con grande interesse la lettera al Direttore di Cristina Moroni, insegnante in una scuola per adulti immigrati. Ha ragione quando dice che le parole sono importanti, e spesso rischiano di essere un’arma di distrazione di massa. Cosa saranno gli Hotspot e gli Hub di cui si sta parlando?
Ho letto con grande interesse la lettera al Direttore di Cristina Moroni, insegnante in una scuola per adulti immigrati, piena di spunti e riflessioni interessanti, tanto più da chi appartiene al mondo della scuola, su cui bisognerebbe lavorare intensamente per contrastare razzismo e intolleranza.
Alcuni spunti non sono del tutto nuovi, ma sono trattati in maniera comunque diversa dal solito. Ad esempio, nell’idea di lavorare con gli immigrati per realizzare azioni utili a tutti, trovo estremamente innovativo quel “con”. Direi, anzi, quasi rivoluzionario.
Sull’organizzazione dell’accoglienza e sul fatto che ci siano servizi pagati dallo Stato ma non realmente erogati sfonda una porta aperta, e non ci torno avendolo fatto più volte, e di sicuro lo farò anche in futuro.
L’aspetto finale della lettera è quello che mi intriga di più, ed è quello relativo al lessico usato per parlare del tema immigrazione e asilo. Ha ragione Cristina, le parole sono importanti, e spesso rischiano di essere un’arma di distrazione di massa.
Un problema che esiste da sempre, e che si può vedere da due punti opposti.
Uno è quello di “sinistra”. Su questo ho sempre avuto l’idea molto personale (e a quanto pare poco condivisa) che a sinistra si siano persi anni per decidere, ad esempio, se parlare di immigrati o di migranti (parola che francamente non capisco; se una persona viene qui per rimanerci, perché associarle una parola che dia il senso del continuo “movimento” e dunque instabilità?), e si sia speso molto, molto meno tempo a cercare di risolvere concretamente i loro problemi.
L’altro punto di vista è quello di chi usa invece le parole non come mezzi per spiegare un concetto, ma al contrario per dissimularlo. Cristina, ad esempio, parla degli hotspot (letteralmente “punto caldo”). Assieme agli hotspot, nella riorganizzazione della gestione (lo so, è un parolone in Italia) dei flussi migratori saranno previsti anche gli hub (letteralmente “centro”).
Cosa saranno queste due strutture?
Introdotti da direttive dell’UE, gli hotspot saranno dei veri e propri centri di smistamento, dove le persone dovrebbero essere trattenute per un massimo di 48 ore. Gli immigrati saranno identificati (laddove possibile); dopodiché coloro che vorranno fare domanda di asilo saranno mandati in altri centri, gli hub “aperti”, tutti al nord Italia, o nel sistema SPRAR.
Gli altri, coloro che arrivano qui “solo” perché fuggono da fame e miseria (anche sull’insensatezza di questa distinzione concordo con Cristina), saranno mandati negli hub “chiusi”, tutti al sud, da dove poi essere rimandati nei loro Paesi. Hotspot e hub sono termini che, detti così, fanno quasi simpatia.
Premesso ciò, passerei allora alla traduzione effettiva di questi due termini.
Hotspot significa, nella realtà, un centro di detenzione informale, dove per 48 ore (se andrà bene) le persone saranno trattenute, identificate (magari con l’intervento di autorità consolari di Paesi di provenienza, in contrasto alle più elementari regole del diritto di asilo) e poi smistate altrove. “Centro di detenzione”, per quanto temporaneo, non è piacevole da dire, per cui meglio chiamarlo hotspot.
Gli hub “chiusi” altro non saranno che gli attuali CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione; ma dato che l’identificazione sarà probabilmente già stata fatta a monte negli hotspot, li potremo chiamare semplicemente “Centri di Espulsione”. Anche questo, però, potrebbe smuovere qualche coscienza, per cui meglio hub e la coscienza ce la siamo lavata.
Gli hub “aperti” saranno in sostanza come gli attuali CARA, Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo. Attenzione però: già ora il termine “accoglienza” è usato a sproposito. Al massimo si tratta di albergaggio. Una lunga attesa del colloquio con la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che, specialmente in questo periodo, può protrarsi per diversi mesi. Intanto nei CARA le attività sono mangiare e dormire (e dare un sacco di soldi a chi li gestisce, caso Mafia Capitale – CARA di Mineo docet, ma questo è un altro discorso), poco o nulla più.
Ha ragione da vendere dunque Cristina. Il problema, però, è che se non fossero chiamati hotspot, ma con parole che traducono quello che realmente sono e lo scopo che hanno, qualcuno potrebbe farsi qualche domanda in più.
Tipo: ma siamo sicuri che con la Bossi-Fini avevamo raggiunto il fondo?
Marco Ehlardo (Napoli, 4 febbraio 1969) ha lavorato per oltre dieci anni a Napoli in servizi per migranti, coordinando un programma di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2011 ricopre il ruolo di Referente per la Campania di ActionAid Italia. Ad ottobre 2014 è uscito per la Edizioni Spartaco il suo primo libro “Terzo settore in fondo: cronistoria semiseria di un operatore sociale precario”.
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