Famiglia

Giocatore, consumatore, malato. Perché nessuno dice: “persona”?

Per capire dove stiamo andando, il filosofo protestante Jacques Ellul invitava a guardare l'uomo piegato davanti a una macchinetta. Quest'uomo, scriveva «è ridotto al livello di un catalizzatore, assomiglia a un gettone inserito in una slot machine: inizia l’operazione senza prendervi parte». Siamo sicuri basti più informazione per scongiurare il disastro prodotto dal machine gambling? O il problema è la visione dell'uomo che orienta questo modello di business?

di Marco Dotti

«Quando la parola è schiava, tutto è schiavo». La pensava così il libertario francese Jacques Ellul, e lo scriveva. Lo scriveva tra le pagine di un lavoro di importanza capitale, del 1977, dedicato al système e al dispositivo che più asserve “parola” e “tutto”: la tecnica.

Già nel decennio precedente – con precisione: il 1964 – Ellul aveva compreso che la tecnica stava diventando sempre più autonoma, come un mezzo che non abbia bisogno di alcun fine, ma solo di un innesco. E l’innesco era l’uomo. Per tutto il resto, valevano ancora le parole di Günther Anders: l’uomo è antiquato e, là dove non lo fosse, sarebbe a maggior ragione inutile.

La nozione di ambiente tecnico

Ellul parla di «technique comme milieu». La tecnica è più una relazione, che uno strumento. La tecnica non è complemento strumentale di una pratica o un insieme di arnesi che «facilitano la vita» agli uomini: il bisturi di un chirurgo, la zappa di un contadino, il calamaio dello scrivano.

La tecnica è un sistema a sé stante, indipendente dall'uomo e dai suoi fini e, come tale, tende a creare il proprio ambiente (milieu) all’interno del quale mal tollera ogni discordanza.

In questo ambiente tutto è chiuso, anche il linguaggio. In questo ambiente tutto deve essere ridotto, affinché si possa «circoscrivere attraverso il linguaggio il nuovo Essere Tecnico». O l'uomo si accorda o è fuori.

Finché ha parola, l'uomo ha però la possibilità e anche la capacità di articolare una critica della tecnica, fosse pure nella forma del grido, ma per farlo non deve cedere al riduzionismo, né assecondare lo spirito che muove il discorso della tecnica.

In quanto moderni, «non siamo più tenuti a utilizzare delle tecniche, ma a vivere con esse nel loro ambiente». Un ambiente che si presenta sempre più come un universo di mezzi senza fini. Per reggersi in equilibrio sul nulla, l’ambiente tecnico deve trasformare incessantemente ogni problema in un problema di ordine tecnico attraverso la riduzione di quanto è complesso e la banalizzazione di ciò che è semplice. Il riduzionismo che anima il discorso della tecnica non tollera zone d'ombra e di libertà del pensiero e nel linguaggio.

Scrive Ellul, a margine di questa sua diagnosi esemplare, che vorrei tenessimo presente anche quando parliamo di azzardo:

la vera aggressione sta nella tecnicizzazione del linguaggio, perché a quel punto tutto sarebbe racchiuso all’interno dell’ambiente tecnico: quando la parola è schiava, tutto è schiavo.

L'AZZARDO IN AMBIENTE TECNICO: IL MACHINE GAMBLING

«Quei piccoli spasmi del sé che avvengono alla fine del mondo». Così il sociologo Erving Goffman, nelle righe che chiudono il suo studio sul gioco d'azzardo, faceva cenno a un fenomeno emergente che, negli anni '60, ancora si faticava tanto a definire gioco, quanto a considerare puro azzardo: il machine gambling. Il giocatore d'azzardo, il gambler che abbiamo visto in tanti film, sdegnava le slot. Il sociologo, le sottovalutava.

Tra il gioco e l'azzardo si frapponevano le macchine, il che complicava terribilmente le cose. O le schermava, dando loro l'aria di essere innocue: è il caso del cosiddetto convenience gambling o azzardo di prossimità che penetra sotto le difese immunitarie di una comunità, inizialmente senza destare allarme, ma producendo effetti devastanti sul medio e lungo periodo. Oggi l'Italia è il terreno d'eccellezza globale per il convenience gambling, vista la proliferazione di 328mila slot machines dislocate il 120mila esercizi commerciali (dai bar ai supermercati).

Nel 1963, la tecnologia elettromeccanica era stata incorporata per la prima volta in una slot machine, consentendo alla casa produttrice detentrice del brevetto e all’industria del gambling di controllare il movimento dei rulli con motori e circuiti elettrici, anziché con molle e ingranaggi meccanici. Si passava così dalla leva allo schermo e dall'ingranaggio alla scheda. Questa tecnologia permetterà di migliorare il controllo sulla macchina.

Nel 1964, pochi mesi dopo l’innesto di questo primo dispositivo elettromeccanico su una slot machine, con lungimiranza il nostro Ellul poteva così scrivere:

«l’uomo è ridotto al livello di un catalizzatore ». L’uomo, osservava Jacques Ellul, «assomiglia a un gettone inserito in una slot machine: inizia l’operazione senza prendervi parte».

I fatti daranno ancora una volta ragione a Ellul:

nel 1978, quando i primi microprocessori, chip digitali capaci di memoria, verranno installati sulle slot machine. Questa tecnologia permetterà di integrare il controllo della macchina con il controllo del giocatore.

CONVENIENCE GAMBLING O L'AZZARDO DI PROSSIMITÀ

Controllo della macchina da parte della casa produttrice e controllo del giocatore, attraverso una dipendentizzazione dei suoi comportamenti e un monitoraggio delle sue attitudini e abitudini di "consumo" di gioco, sono caratteristiche tipiche dell'azzardo di prossimità.

Convenience gambling e machine gambling sono diventati quasi sinonomi. Liberato dalle sue ultime componenti meccaniche, pronto a guadagnare terreno e a divorarsi quasi ogni altra porzione nel sistema dell’azzardo di massa, il machine gambling si è accordato alla perfezione col passaggio dalle società disciplinari chiuse, alle società di controllo aperte – per capirci: dal carcere al megastore, dalla fabbrica alla "disoccupazione creativa", dalla bisca all'azzardo legale e diffuso in ogni spazio commerciale -rivelandosi una strepitosa macchina non solo di assoggettamento, ,ma di produzione di soggetti conformi al nuovo ambiente tecnico. Il machine gambling non attiene allo stile di vita del giocatore, ma alla configurazione della sua forma di vita. Questo è un passaggio cruciale, che va compreso a fondo.

Nel giro di due anni dall'introduzione dei microchips nelle macchinette, le entrate dei casino di Las Vegas legate alle macchine schizzarono al 40% del totale delle entrate totali da gioco, raggiungendo il 75% nel 2000.

LE CORPORATION TEMONO LE PAROLE

Gioco? Azzardo? Intrattenimento? La macchina è un problema, ma non meno problematica è la strada per definire l’operatività di questo problema, una volta messo a contatto con un ambiente tecnico e con il giocatore. L’industria americana – è fatto noto – ha investito molte risorse nei primi anni Ottanta. Li ha investiti nel momento più delicato dell’ascesa del machine gambling, cercando di introdurre un impercettibile décalage semantico nei discorsi che riuscivano a raggiungere la sfera pubblica. Si trattava, in sostanza, di produrre uno slittamento che spostasse il focus dell’attenzione dal gambling (letteralmente: azzardo) al gaming, che ha una valenza orientata al positivo (game) e all'interazione (play). E qui torniamo alle parole asservite di cui ci parla Ellul.

La forma più curiosa di questo investimento semantico la leggiamo in un documento dell’American Gaming Association, l’associazione di categoria del settore dell’azzardo legale statunitense, dove si cerca di far risalire il termine gaming addirittura a un documento di una lega anzi azzardo del 1891.



Perché un’associazione che raggruppa colossi finanziari del ludo-capitalismo come la AGA debba perdersi in questioni da quiz televisivo è facilmente spiegabile ricorrendo ancora alla lezione di Ellul: chi asserve le parole, asserve tutto. Una piccola risonanza stonata, può introdurre squilibri minimi, ma intollerabili dal sistema.

Nel dispositivo della tecnica, come in una rete, cadono così anche le parole. E le parole che non vi cadono da sé, vanno spinte cpn la forza.

In libertà, possono restare solo poche parole, preventivamente asservite a un protocollo d’intesa, parole improntate al gergo della tecnica, dell'economia o della clinica. Parole asservite e di servizio.

Ho problematizzato altrove questo approccio, anche nel contesto italiano. Non ritornerò sulla questione. Qui, inizierei prendendo una definizione operativa, tecnica, penetrata nel senso comune.

AZZARDO COME SENSO COMUNE

Tra le molte, ricorrenti definizioni di azzardo operative anche sul piano della clinica ve n’è una che lo qualifica come attività in cui intervengono contemporaneamente tre condizioni costitutive:

1) per giocare è necessario puntare denaro o beni di valore;

2) iniziato il gioco, il giocatore non può ritirare la posta messa in palio;

3) l’esito del gioco è determinato in larga misura dal caso, anche se sull’intervento della casualità il giocatore si inganna.

Letto in questi termini, l’azzardo presenterebbe la sua criticità soprattutto sul punto terzo, ossia sull’esito del gioco stesso che sarebbe determinato dall’alea.

L’irregolarità del caso (nesso caso-effetto) verrebbe letta dal giocatore come regolarità causale (nesso causa-effetto).

L’ingannarsi (o l’ingannare) su quest’alea, a seconda che l’accento ricada sul giocatore o sul sistema di gioco che lo avvince, viene considerato come frutto di fallacia, distorsione, dissonanza cognitiva o di un’asimmetria informativa che, in qualche misura, sarebbe possibili ridurre e in molti casi colmare con informazioni mirate al giocatore o con campagne tipo "Gioco responsabile".

Va detto che la definizione operativa che ho riportato – ripresa in qualche misura dalle ricerche sul "gioco eccessivo" di Robert Ladouceur – coincide di fatto con una tradizione definitoria di lungo corso, che ha tutt'ora una propria valenza. Basti ricordare che

il Codice Penale italiano, all’articolo 721, definisce giochi d’azzardo quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria.

Ma nel caso del machine gambling? In questo caso, la definizione clinica di azzardo sembrerebbe funzionare. Nel discorso clinico, infatti, il dipendente da gioco d'azzardo, non fosse che per una prevalenza numerica è tipicamente ritenuto il giocatore da slot machine (cfr. Francesca Rascazzo, "Azzardo", in Atlante delle dipendenze, a cura di L. Grosso e F. Rascazzo, Edizioni Gruppo Abele, 2014 p. 163).

Il giocatore da slot machine sarebbe, dunque, ingannato più che dal caso, dalla sua errata valutazione dell'intervento del caso nella sua relazione di gioco con le macchine.

Peccato che, stando al legislatore italiano, il caso non interverrebbe quasi per nulla in quella dinamica di gioco con le macchine! Leggo dall'articolo 110 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza, emendato infinite volte per far spazio a "apparecchi e cogegni da intrattenimento" per il "gioco lecito", come lo definisce la legge, forse per aggirare il divieto tuttora vigende nel Codice Penale – :

«gli apparecchi e congegni da intrattenimento o da gioco di abilità … si basano su modalità di gioco nelle quali gli elementi di abilità od intrattenimento sono preponderanti rispetto all’elemento aleatorio».

In precedenza, l'articolo definisce «per preponderanza dell’abilità o dell’intrattenimento rispetto all’elemento aleatorio, la possibilità per l’utente, tramite la propria abilità, di superare, nella maggioranza degli eventi di gioco, gli elementi incidenti sul risultato e/o la prevalenza, durante la partita, del tempo dedicato ad elementi di intrattenimento».

Nell'incontro del giocatore con la macchinetta interviene il caso o l'abilità? Nella configurazione di questo incontro, pesano di più gli elementi del gioco o quelli dell'azzardo?

Oppure – e qui torniamo a Ellul – niente di tutto questo?

Tutti sappiamo che a "generare il caso" e a simulare una relazione di gioco è nient'altro che un software, il random number generator. Ma né le normative (che parlano di abilità di gioco prevalente sull'alea o caso), né le proposte di intervento o contrasto all'azzardo di massa (che fanno appello all'abilità e alla ragione del giocatore e si concentrano sugli inganni e gli autoinganni – veri o presunti – del giocatore stesso, che sottovaluterebbe l'intervento del caso nel decidere la sorte di una partita) tengono conto di questo semplice presupposto:

non c'è giocò, non c'è abilità possibilie, non c'è possibile intervento del caso. C'è solo un programma, programmato per fare quello che il programmatore decide. Tutto qua.

Il GAMBLING POSTMODERNO

Nel caso del machine gambling, piaccia o no, tutto si complica. Si complica non solo in termini quantitativi ma anche e soprattutto qualitativi, perché l’interazione uomo-macchina è in sé complicata anche dinanzi a macchine semplici e perché a complicarla sono una pluralità di varianti che vanno oltre il rapporto di quel uomo con quella macchina.

Persino Roger Caillois, autore de Les jeux et les hommes (Gallimard, 1958), dopo aver proposto una classificazione delle pratiche ludiche in giochi di “agon”, “alea”, “mimicry” et “ilinx”, in una nota dello stesso lavoro si chiede se la «machine à sous» (la slot machine) e il machine gambling in genere possano rientrare in qualche modo nella categoria dell’alea o del rischio, che lui chiama “vertigine” (ilinx). Le macchinette mangiasoldi, scrive Caillois, suscitano infatuazione e una reazione meccanica, mai un'interazione ludica.

La nota a margine di Caillois è importante, perché ci mostra come la macchina costituisca un problema, un vero problema anche per chi si occupa sul piano socio-culturale, ossia critico, e non meramente clinico della questione.

Il machine gambling non rientra, per Caillois, né nella tipologia di gioco legato al caso, né in quello legato alla vertigine, tanto meno nei giochi di agonismo e mascheramento. Semmai, mantiene il legame con un simulacro, con un idolo – per usare una categoria recentemente studiata da Silvano Petrosino. Questo, anziché ridurlo, allarga lo spettro del problema. Non è un caso che il giocatore – come scrive la ricercatrice del MIT Natasha Dow Schüll nel suo Architetture del’azzardo. Progettare il gioco, costruire la dipendenza, Luca Sossella editore, Roma, in uscita a fine giugno – attribuisca alla macchina una volontà propria, riuscendo a costruire attorno alla macchina una vera e propria zona di intensità affettiva. L'idolo è un tema chiave per affrontare la nostra questione. Non basta rovesciarlo fisicamente, occorre farlo spiritualmente e intellettualmente o non se ne esce.

Torniamo a Caillois. Quando in ballo c’è una classificazione non si sa mai “dove mettere” la macchina, come dimostrano le torsioni barocche di molti legislatori (se ne è fatto cenno, a proposito dell'articolo 110 del TULPS, pilastro fragile su cui si regge tutto il sistema del "gioco pubblico" in Italia). Eppure la macchina c’è. C'è la drammaticità di un problema che non è unicamente classificatorio o clinico, ma antropologico.

Là dove prevalgono pratiche di gioco dissociative, rispetto a quelle associative tutto muta. Muta il gioco, muta l’azzardo. Ne muta la fisionomia. Ciò che non sembra mutare, invece, è una certa considerazione del fenomeno che, sul piano della pubblicistica, vorrebbe orientare alcune pratiche di contrasto.

Tra le pieghe di questo che potrebbe apparire come un micro-problema classificatorio, e quindi ozioso, si muovono infatti tensioni politiche e culturali più profonde. Tensioni che da alcuni anni ci interrogano – o avrebbero dovuto interrogarci – su chi o che cosa abbia il controllo nell’incontro tra il gioco e l’azzardo e chi o che cosa abbia la responsabilità per la perdita del controllo di chi si mette a giocare. Il sistema? Lo Stato? La macchina? Il caso? Il giocatore? Oppure la loro interazione all'interno di un ambiente tecnico?

Diverse modalità di attribuzione della responsabilità portano a diverse modalità di proposta per l’intervento, anche se la maggior parte di questi approcci tratta il comportamento individuale come l’oggetto ultimo di intervento e di regolazione.

Strategie di decrescita per il consumatore-giocatore?

Va comunque ricordato che, quando non inquadrato in un’ottica esclusivamente clinica come "malato", il giocatore è visto come una variante nella categoria del “consumatore”. Difficilmente, se non dal basso, a livello di movimenti, il giocatore riacquista la sua fisionomia di persona, di uomo.

Come consumatore, il giocatore è ritenuto portatore sano di una capacità di scelta “naturalmente” razionale. Se qualcosa intacca questa sua propensione alla scelta razionale, occorre riportarlo sulla “retta via” della ragione, eliminando le sue (del giocatore) distorsioni, gli eccessi, le problematicità. Al massimo del livello di critica si chiede una riduzione dell'offerta, a cui dovrebbe conseguire una decrescita nei consumi.

Un approccio di questo tipo si basa su una strategia regolativa che presuppone che i consumatori-giocatori continueranno a partecipare al mercato del gioco e quel mercato troverà il proprio equilibrio assorbendo le critiche e riducendo le criticità. Lo scopo è gestire, anziché sradicare il rischio.

Finita l’era della “rabbia contro le macchine” che vide impegnati gran parte dei decisori politici americani degli anni Venti e Trenta, coloro che provano oggi a regolare e circoscrivere le dinamiche espansive e saturanti del gambling nella sua deriva macchinica lo fanno in modo tale da agevolare l’autoregolamentazione del consumatore, piuttosto che modificare i termini del consumo.

Ridurre l'asimmetria informativa riduce il problema?

I movimenti di difesa dei consumatori, all’interno dei quali – negli Usa – ancora ricadono quei particolari consumatori che vengono considerati i giocatori, sostengono la necessità di rimedi informativi (ad es. pubblicare la probabilità di vincita e perdita, informare sull’aleatorietà del risultato, sui rischi di patologie etc.).

Alcuni si fermano qui, ritenendo che l’asimmetria informativa tra il banco e il giocatore sia almeno in parte colmata da questa informazione. Altri ritengono che queste informazioni andrebbero sovrapposte – ad es: tra una schermata di gioco e l’altra, nel caso del machine gambling – al processo di gioco stesso.

Questo orientamento promuove il modello del consumo responsabile, affermando che la capacità di esercitare la scelta responsabile dipenda da una piena informazione.

Come raggiungere questa “piena informazione” è un nuovo problema non da poco anche per i sostenitori di questo approccio. Un problema a cui, da parte sua, l’industria di settore statunitense ha risposto fin dai primi anni Duemila con massicce campagne informative sul “gioco responsabile”. Con risultati modesti, sul piano numerico, riuscendo però a circoscrivere il problema all’interno di limitati settori della popolazione.

Da qualche anno, anche all’interno dell’industria del gioco si fa largo l’idea che “occorra intervenire sui dispositivi” e le campagne informative non servano più, rispetto a un problema che ha oramai raggiunto la sfera del dibattito pubblico.

Abbiamo così, da un lato, un approccio “giocatore-centrico” e, dall’altro, “dispositivo-centrico”.

Entrambi questi approcci non considerano un terzo elemento: l’interazione tra il primo ( giocatore) e il secondo (il dispositivo di gioco), entrambi immersi in un micro-ambiente (dove fattore determinante, anche per la “dipententizzazione”, è l’interior design),

Entrambi questi atteggiamenti partono dalla convinzione che il gioco azzardo, patologico o no, possa essere combattuto favorendo scelte razionali nei consumatori. Eppure, anche tra i sostenitori di questi rimedi si dividono proprio su che cosa sia a minare effettivamente le scelte razionali del giocatore.

Da un lato, osserva Natasha Dow Schüll, troviamo coloro che considerano la distribuzione di informazioni come un correttivo per una cognizione distorta e coloro che la ritengono un correttivo alle distorsioni ingannevoli del design della macchina. Un primo orientamento, sul quale ricadono le attenzioni dell’industria americana, aderisce alla prospettiva dominante nello studio sulla dipendenza da gioco d’azzardo secondo cui il gioco patologico – come abbiamo visto nella definizione minima con cui abbiamo aperto questo intervento – nasce da di errori cognitivi e da una illusione di controllare tutto, oltre che da una valutazione difettosa su esiti, schemi irrazionali di probabilità, false credenze di controllo sugli eventi casuali, riconoscimento errato delle connessioni causali etc. L’obiettivo di questo orientamento è intervenire sul giocatore.

Un secondo orientamento si propone la tutela dei consumatori, l’obiettivo, qui, è la macchina, non il giocatore.

Seguendo questa concezione, il gioco patologico sarebbe in relazione all’opacità della macchina e dei suoi meccanismi interni ingannevoli.

Eppure c'è chi, come Roger Horbay, a ragion veduta afferma che “l’elaborazione umana è corretta, il problema è l’inganno della tecnologia”.

UN MODELLO DI BUSINESS

Le macchine impostano valide aspettative nel sistema cognitivo umano e poi le violerebbero, facendo leva sulla razionalità dei giocatori, non sulla loro irrazionalità. In sostanza, come ha dimostrato Natasha Schull, le macchine sono programmate per generare dipendenza, non per altro.

Di conseguenza, le macchine non sarebbero neppure il mezzo migliore attraverso cui fornire informazioni ai giocatori d’azzardo e rimediare così alla loro distorsione. Servirebbero rimedi tecnologici e software ad hoc per riorientare la macchina? Anche questa è un’ipotesi.

Tuttavia, perfino questa versione più radicale di tutela dei consumatori, sebbene ritenga responsabile la macchina, in definitiva si rivolge al comportamento del consumatore. I rimedi informativi smascherano il funzionamento della macchina facendo appello alla razionalità dei giocatori, lasciando intatte le funzionalità e le caratteristiche di base della macchina.

Torniamo allora alla domanda ritenuta cruciale: il problema dell’azzardo e delle patologie di gioco risiede nel giocatore o nella macchina? Oppure – e chiudiamo ancora con Ellul – risiede nella loro immersione in un ambiente tecnico che, dietro a tutta una serie di tipizzazioni "giocatore-consumatore-utente" ci fa dimenticare la domanda fondamentale: e l'uomo?

La domanda, a parer mio, è mal posta perché articola un aut –aut che non permette terza via e, di conseguenza, via d’uscita. Il problema non starebbe né nella macchina, né nel giocatore. Il problema non è “nel”, ma “tra”. Tra la macchina e il giocatore. E tra macchina e giocatore non c'è altro che una mediazione tecnica devastante.

Che lo si voglia o no è su questa relazione – uso il termine nel senso preciso usato da Jacques Ellul, mi si perdoni se non lo specifico altrimenti che rimandando al suo Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009, capitolo II – che dobbiamo intervenire. Dobbiamo intervenire su quelle reti che – non a caso- machine e convenience gambling hanno disgregato. Finché resta un solo filo, abbiamo il dovere di riannodarlo, ma con intelligenza.

Non vedo altra strada, a patto di non voler svendere le proprie parole a un modello di business che è ben più che un modello di business: è una visione dell'uomo incompatibile con l'uomo.

Questo articolo è il testo della relazione al convegno organizzato dall'Ordine dei Giornalisti del Veneto su “Giornalismo, gioco pubblico, leggi, monopoli e ludopatie” (Mestre, auuditorium della Provincia, venerdì 12 giugno)

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