Famiglia
Gilda chiude casa. «No ai bambini al massimo ribasso»
La storia emblematica di una responsabile di comunità
Gilda De Felice da 15 anni è responsabile di una storica struttura in Irpinia. Il 30 ottobre ha consegnato le chiavi. Troppi 240 milioni di crediti… Gilda non lo dice. Non dice quanto le costi chiudere per sempre quella porta, l’ingresso di una comunità che in 15 anni ha significato casa per 120 bambini. Non dice quanto sia stato brutto preparare Anna, 13 anni, e Luca, 2 anni, al trasferimento in altre strutture, sperando di non compromettere la serenità e la fiducia faticosamente costruite.
«Vado a fare la baby sitter», dice tutto d’un fiato, quasi fosse un sollievo, a 41 anni e dopo una vita nel volontariato prima per i migranti e poi per i minori. Resettare tutto e ricominciare. Responsabile della comunità di tipo familiare “La zattera in onda” in Irpinia, a Parolise, Gilda De Felice è la testimone-protagonista del crollo – assurdo – delle strutture di accoglienza per minori della Campania. Un crollo per asfissia progressiva, dovuto alla mancanza del pagamento delle rette da parte dei Comuni, Napoli in testa.
“La zattera in onda” chiude per mancanza di risorse. Chiude con 240mila euro di crediti dai Comuni, che non pagano le rette da due, anche tre anni. «Avevamo fatto la scelta, fin dalla nostra apertura, di assumere tutti gli educatori e il personale con contratto a tempo indeterminato», spiega. «L’avevamo fatto per il bene dei bambini, oltre che per correttezza, per dare una prospettiva sicura agli operatori e combattere il turn over. Questa scelta si è rivelata fatale. Dal 2006, anno dopo anno, abbiamo dovuto effettuare un licenziamento dopo l’altro. Da 14 che eravamo, siamo rimasti in tre».
Emblematica la storia della “Zattera in onda” anche perché riflette il disordine di un settore. Esiste un tariffario regionale che ha stabilito i rimborsi giornalieri per ciascun bambino ospitato. Per il 2009, a seconda della gravità della situazione, il rimborso stabilito dalla Regione va da 138 a 220 euro al giorno. «Avevamo stabilito il minimo tariffario, ma non ci mandavano nessun bambino», spiega la responsabile. «Allora siamo scesi a 90 euro, e sono iniziate le assegnazioni». Ma ci sono comunità, sempre piene, che riescono a scendere persino fino a 25 euro al giorno. «Non mi chieda come fanno, per me già sotto i 70 euro non è possibile garantire tutti i servizi», prosegue, ipotizzando qualche trucco sui contratti, personale in nero. «Eppure un’équipe fissa è importante per realizzare il progetto educativo di un bambino. Dal 2002 ad oggi, però, abbiamo registrato un grave rallentamento nelle attività di presa in carico dei casi. Se prima, soprattutto per i nostri bambini più piccoli, veniva trovata una soluzione entro 7-8 mesi, adesso le prospettive di permanenza in comunità erano diventate lunghissime, almeno un paio d’anni. Un tempo infinito per un bambino piccolo».
E non è nemmeno colpa dei servizi sociali: «Cosa dovremmo chiedere di più, ad esempio alla nostra assistente sociale di riferimento, che già si occupa dei casi di quattro comuni, di un’intera comunità psichiatrica e di sette persone private della capacità di agire?», si domanda la De Felice. Niente. Il 30 ottobre ha svuotato la comunità, restituito le chiavi al Comune. «Chissà cosa ci faranno». Tra gli educatori, c’è chi cerca un contratto al centro diurno, chi si offre per fare le pulizie. Peccato, perché i ragazzi che sono passati di lì, a volte ritornavano a salutare. Gli ultimi poche settimane fa: sette fratelli che erano stati tra i primi ad essere accolti. «Abbiamo contatti quasi con tutti i nostri ragazzi. Speriamo di averli tratti fuori dalle tempeste della vita. Adesso però, anche per questa piccola zattera, la tempesta è troppo grande».
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