Volontariato

Gherardo Colombo: «Facendo il volontario ho imparato che bisogna ascoltare per essere ascoltati »

Molto di quello che fa il volontariato, spiega l'ex magistrato, oggi impegnato su molti fronti del sociale, «dovrebbe essere fatto dalle istituzioni, quindi dovrebbe essere fatto non per bontà ma per obbligo di legge». Senza il Terzo settore, il sistema non reggerebbe, ma al tempo stesso è proprio l'agire mutualistico a ricordarci l'importanza delle regole di base di ogni convivenza: tolleranza, rispetto, perdono

di Laura Solieri

La giustizia è un prodotto umano e in quanto tale è intrinsecamente imperfetta e perfettibile. Essa dovrebbe rimodularsi avendo come base il riconoscimento della dignità di tutti, come vuole l’art. 3 della nostra Costituzione e bisognerebbe operare affinché la condanna implichi un recupero della persona e non la sua esclusione dalla comunità. A questo proposito, tanto di quello che fa il mondo del volontariato dovrebbe essere portato avanti dalle istituzioni, dovrebbe essere fatto non per bontà ma per obbligo di legge.

Ne abbiamo parlato con un volontario sui generis, Gherardo Colombo, che nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole, e nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità.

Oltre che nelle scuole, opera anche nelle carceri. Cosa ha imparato dai ragazzi e dai detenuti in tutti questi anni?
Nelle scuole ho imparato la cosa più importante: la necessità di cercare un modo di porsi per riuscire contemporaneamente ad ascoltare e ad essere ascoltato. All’inizio facevo lezioni frontali, cosa che progressivamente ho abbandonato. Il dialogo e l’ascolto mi hanno aiutato molto nel confronto con i detenuti dai quali ho imparato tanto sulla diversità delle vite: prima e dopo la commissione di un reato, c’è comunque l’esistenza, la vita, le sofferenze, le contraddizioni ed è una prospettiva, un punto di osservazione da tenere sempre a mente.

Come è cambiata la sua concezione della giustizia da quando è entrato in magistratura ad oggi? Come realizzare una giustizia migliore o quantomeno migliorabile?
Credo che il punto di partenza del cambiamento dovrebbe essere costituito dal rispetto dell’art. 3 della Costituzione che dice che tutte le persone sono degne, indipendentemente dalle loro condizioni sociali, e questo riguarda anche la commissione di un reato e il fatto di trovarsi in carcere. La giustizia dovrebbe rimodularsi avendo come base il riconoscimento della dignità di tutti. Nel settore penale, dovrebbe succedere che al processo ci si arrivi solo quando effettivamente, in concreto, le probabilità che l’imputato sia colpevole siano elevate.

Le ultime statistiche dicono che la percentuale delle persone assolte è piuttosto elevata quando invece questo numero dovrebbe essere abbastanza marginale. È vero che i processi servono per vedere se una persona è colpevole o innocente ma è altrettanto vero che al processo bisognerebbe arrivare con basi altamente solide. L’altro punto riguarda quali potrebbero essere le conseguenze dell’accertamento della responsabilità: una volta che si accerta se una persona ha commesso un reato, quale deve essere la risposta della società e quindi dell’ordinamento tenuto conto che tutte le persone sono degne anche se hanno commesso un reato, che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità, che devono tendere alla rieducazione del condannato, che è punita qualsiasi forma di violenza fisica o morale nei confronti delle persone la cui libertà è in un qualche modo limitata? Quale deve essere la conseguenza della trasgressione, tenuto conto di tutti questi principi? Bisognerebbe operare affinché la condanna consista in un recupero della persona piuttosto che nella sua esclusione dalla società.

A questo proposito, per evitare questa esclusione, il mondo del volontariato fa veramente tanto, e probabilmente gli viene chiesto troppo. Lei cosa ne pensa?
Molto di quello che fa il volontariato dovrebbe essere fatto dalle istituzioni, quindi dovrebbe essere fatto non per bontà ma per obbligo di legge. Una riflessione importante va inoltre riservata a come vengono spesi i soldi amministrati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. All’educazione e al reinserimento dei detenuti ne vanno veramente pochi. Nella cura della psicologia della persona, nella rieducazione si investe ancora troppo poco. La speranza è che con la disponibilità che arriva in Italia anche nel campo della giustizia tramite il Recovery Fund si possa modificare l’impostazione sono tanti aspetti, anche sotto il profilo della vivibilità del carcere oltre che nella promozione effettiva e vera degli aspetti trattamentali nei confronti dei detenuti.

Qual è la sua concezione del perdono?
Il tema del perdono lo vedo da un punto di vista assolutamente laico, come disponibilità a riallacciare le relazioni interrotte, come disponibilità ad accorgersi dell’altro, a vederlo, ad assumersi responsabilità per l’altro e chiedere che l’altro si assuma le sue responsabilità. Mi sono dimesso dalla magistratura perché secondo me perché si rispettino le regole è necessario conoscerle, aiutare le persone a comprenderle quindi a farle proprie. E la nostra prima regola è la Costituzione che dice che tutte le persone sono importanti.

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