Mondo

Gheddafi, una fine feroce

Le foto, i video, il sangue, la festa. Ma dove andrà la Libia?

di Franco Bomprezzi

Quando i giornali si rendono conto di raccontare una pagina di storia: la cattura e la drammatica uccisione di Gheddafi riempie oggi le pagine dei quotidiani. Molto spazio alla cronaca, ma anche ai commenti, specie rispetto all’uso mediatico della macabra fine del rais. Ecco la nostra sintesi.

Il CORRIERE DELLA SERA punta nel titolo a tutta pagina proprio su quell’ultimo istante: “Un colpo alla tempia dopo la cattura”. Due le foto a corredo del titolo, forse fra le meno truculente, e scelte soprattutto per far capire ai lettori che Gheddafi era stato catturato vivo, e che solo dopo è stato finito con un colpo di pistola. I servizi occupano le prime tredici pagine. Moltissimi i commenti. Di eccezionale spessore storico l’ottimo editoriale di Sergio Romano, che parte dalla prima: “I volti di un satrapo” capace di restituire la memoria dell’evoluzione ideologica, politica ed economica di un personaggio controverso. Scegliamo questo passo che coglie un elemento essenziale: “Demograficamente povera, economicamente sottosviluppata e priva di un forte passato nazionale, la Libia di Gheddafi era tuttavia, potenzialmente, un paese ricco, e tale sarebbe diventato a mano a mano che le grandi compagnie petrolifere scoprivano nuovi giacimenti di petrolio e di gas. A differenza di altri leader nazionali dei paesi emergenti, il colonnello ebbe quindi sempre a sua disposizione i mezzi finanziari necessari al perseguimento dei suoi obiettivi; ed è probabile che tanta abbondanza lo abbia sollecitato a concepire sogni smisurati e stravaganti. La storia della sua politica è anche la storia del suo denaro e del modo in cui venne impiegato”. “Lo scempio di un corpo non è mai giustizia” è invece il commento di Pierluigi Battista: “La giustizia sommaria non è mai la via giusta. La brutalità primordiale non è mai la via giusta. Noi italiani, in special modo, sappiamo che la celebrazione dell’eterna Piazzale Loreto per i dittatori in disgrazia non è mai la via giusta. Soddisfa il gusto della vendetta, ma non quello della giustizia. Lava con il sangue del dittatore l’onta delle sofferenze patite, ma non è l’augurio di un nuovo inizio, di una pagina nuova della storia che sappia chiudere con gli orrori del passato e impedisca a una nazione liberata di avvitarsi nella spirale delle rappresaglie, nel bagno di sangue purificatore, prologo di nuovi orrori e ingiustizie. Ecco perché le scene del corpo straziato di Gheddafi, scandite dalla comprensibile ma scatenata furia di chi lo ha catturato, non possono rallegrare chi ha condiviso l’intervento militare della Nato per aiutare i ribelli libici nella loro guerra al dittatore. Forse era inevitabile che finisse così. Ma forse è giusto ostinarsi a pensare, e a sperare, che il crepuscolo delle dittature non debba conoscere la carneficina come suo esito obbligato”. Gian Antonio Stella a pagina 11 ripercorre le tante amicizie italiane del rais, nei governi di destra ma anche di centrosinistra, fino alle performance di Berlusconi. Ma è interessante soprattutto la citazione finale: “Tutte cose che hanno contribuito, probabilmente, all’agghiacciante scempio compiuto ieri sul suo corpo. Una fine che, nella sua arroganza, il Colonnello aveva però messo nel conto. O almeno così pare a rileggere quelle parole scritte dal tiranno stesso nel racconto «Fuga all’inferno e altre storie» del 1990 edito in Italia da manifestoLibri: «Amo le masse e le temo, proprio come amo e temo il mio stesso padre. Nel momento della gioia, di quanta devozione sono capaci! E come abbracciano alcuni dei loro figli! Hanno sostenuto Annibale, Pericle, Savonarola, Danton, Robespierre, Mussolini, Nixon e quanta crudeltà hanno poi dimostrato nel momento dell’ira»”. Fabrizio Caccia a pagina 10 riferisce le reazioni dei politici italiani, a partire dal “sic transit gloria mundi” di Berlusconi, per finire così: “L’unico ad andare decisamente controcorrente, infine, è l’europarlamentare della Lega, Mario Borghezio: «Onore a Gheddafi, un grande leader, un vero rivoluzionario, non confondibile con i nuovi dirigenti libici portati al potere dalle baionette della Nato e dalle multinazionali del petrolio. Onore al templare di Allah»”.

Anche LA REPUBBLICA apre ovviamente con la Libia: “Ucciso Gheddafi, la guerra è finita” (con immagini di festeggiamenti accanto alla fotografia del corpo del raìs trascinato dai ribelli). Segue il resoconto della fine del raìs, che resosi conto che anche Sirte sarebbe caduta si è lasciato convincere dai suoi a tentare una sortita disperata nella notte. Salito su un fuoristrada corazzato, ha imboccato l’unica strada lasciata libera dai ribelli, ma è intervenuta una pattuglia franco-americana che ha bloccato la fuga. Quindi il bliz dei ribelli e la morte per mano di un giovane immortalato poi con in mano la pistola d’oro. Secondo un’altra ricostruzione sarebbe stato ucciso a sangue freddo con un colpo alla tempia. Morti anche i figli Seif e Mutassim, catturato vivo invece il portavoce Moussa Ibrahim. A Tripoli e Bengasi grandi festeggiamenti. Segue un lungo commento di Vittorio Zucconi: “Il sangue del raìs diventa trofeo lo scempio dei sudditi in rivolta”. Il colonnello ferito e umiliato viene filmato mentre chiede pietà. «Non si riesce a gioire per scene da bassa macelleria anche quando il finale era già stato scritto e meritato da quando lui aveva deciso di resistere per vanità e cecità». Di fronte a Gheddafi che chiede pietà, «guardando l’ultima espressione congelata sul viso quando dovette sentire la canna della pistola d’oro premuta alla tempia, si è assaliti dalla nausea». Quindi si riferiscono le reazioni internazionali (oggi a Bruxelles riunione dell’Alleanza per decider e il dopo Gheddafi) e quelle italiane (“Berlusconi: «Sic transit gloria mundi» dall’amicizia al requiem per il Colonnello” è il titolo del pezzo in cui Filippo Ceccarelli racconta come nei palazzi del potere è stata accolta la notizia: «la politica internazionale non è roba da cuoricini. Ma quel che colpisce, nell’approccio del governo, è la più vistosa e scombinata esagerazione, la fantasmagoria, si direbbe, del voltafaccia»). Infine Bernardo Valli delinea il personaggio Gheddafi: “Affari, petrolio e attentati i quarant’anni di potere del beduino rivoluzionario”. Dalla nascita umile fino alla conquista del potere, sostenuto da un grande desiderio di rivalsa e da uno sconfinato orgoglio…

“Vincono i peggiori”, è il titolo d’apertura de IL GIORNALE dedicato alla morte di Gheddafi e corredato da uno dei fotogrammi del viso dell’ex rais insanguinato dopo l’esecuzione. All’interno ampio spazio al tema con ben due editoriali uno a firma di Vittorio Feltri e l’altro di Magdi Cristiano Allam. Il primo sottolinea come Gheddafi sia morto come quasi tutti i dittatori («malamente e in circostanze poco chiare») e come nonostante avesse avuto la possibilità concreta di scappare ha preferito «secondo gli impegni assunti, rimanere in Libia accanto al mucchio sempre più esiguo della propria gente». Una fine “con il piombo” che «giova alla causa degli assassini più di uno tipo Saddam impiccato» e che è la fine che il dittatore in fin dei conti desiderava.  Chi scrive sottolinea come «uno schifo era il regime del Colonnello e uno schifo è quello che sta per subentrare con la sponsorizzazione dell’Occidente. Dai figli di Gheddafi si passa ai fratelli musulmani capirai che progresso» mettendo in evidenza come ora comincia «la gara internazionale per accaparrarsi il petrolio libico» corsa in cui l‘Italia parte «con un pesante handicap» visto che «eravamo interlocutori privilegiati del satrapo freddato e in pochi mesi siamo diventati ospiti appena tollerati al tavolo della spartizione». Magdi Allam torna invece alla carica con la paura dell’estremismo islamico (“Ora il Paese rischia di finire nelle mani dei fanatici di Allah”). Secondo Allam «probabilmente Gheddafi avrebbe voluto morire da martire come il suo idolo Omar al Muktar». Un uomo che voleva essere un “padre” per i libici ma che «che è stato soprattutto un padrone» con una Repubblica che è stata «un grande inganno per camuffare una delle dittature più ferree». Un rais che è definito da chi scrive «letteralmente un folle» che «ha sperperato un fiume di denaro per un  arsenale di armi» e ha finanziato il terrorismo di ogni matrice. E poi un occhio al futuro «la prospettiva di un regime dove sarà rilevante il peso degli islamici che pragmaticamente imporranno la legge coranica e radicalizzeranno la società» e un monito «nessuno di noi rimpiangerà Gheddafi ma capiremo presto che è stato un madornale errore fare una guerra per portare al potere dei fanatici di Allah che per il momento hanno interesse ad occultarsi dietro un pugno di voltagabbana». A pag 2-3 doppia pagina di cronaca “Morirò in battaglia. Il beduino indomabile è stato di parola” e “La nuova Libia lincia il colonnello. Obama e Sarkò: è merito nostro”, due pezzi su come è morto il Colonnello, su chi abbia fatto il raid decisivo e su chi Gheddafi era e aveva promesso (di morire in battaglia), oltre che la conta della fine dei suoi fedelissimi. A pag. 4 pezzo in parte polemico con la Nato (“La Nato non deve più fingere: la missione era un’esecuzione”, in cui si mette in evidenza come ora «La Nato gioca ora a carte scoperte. Davanti al cadavere insanguinato di Gheddafi la favola della no fly zone non serve più». Chi scrive fa risaltare come la Nato sia andata oltre i limiti della risoluzione Onu su cui si basava l’intervento, un intervento a cui la comunità internazionale ha reagito con generale acquiescenza. La Guerra in Libia segna un precedente importante. «Ottenere una risoluzione per fermare un massacro di oppositori come ad esempio quello in corso in Libia sarà molto più difficile perché nessuno saprà indicarne limiti e termini, ma dall’altra pare chiunque pacifista o no dovrà mettere in discussione la legittimità di un intervento armato dovrà ricordare l’acquiescente silenzio con cui ha assistito all’eliminazione del Colonnello e del suo regime».

Nell’apertura del MANIFESTO domina la fotografia di Gheddafi coperto di sangue al momento della cattura “Dov’è la vittoria” titola a caratteri di scatola il giornale “Muammar Gheddafi catturato e ucciso a Sirte”. Con la morte del raìs cade l’ultima roccaforte lealista e si conclude la guerra di Libia sostenuta dalla Nato. Il primo a commentare è il suo ex amico Berlusconi: «Sic transit gloria mundi». Obama annuncia: «La missione dell’Alleanza atlantica finirà presto»” il sommario che rinvia alle pagine 2 e 3, dove ci sono poche immagini. Indicativo il titolo dell’editoriale di Maurizio Matteuzzi: “Fine primavera”. Scrive: «Con la morte del tiranno – o con il suo linciaggio – , la guerra civile in Libia e la «guerra umanitaria» della Nato è finita (anche se la Nato e i suoi capintesta: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, con l’Italia ad arrancare  penosamente dietro, hanno già assicurato che ci resteranno anche dopo, a vegliare sulla vittoria e sui vincitori). Quella di Gheddafi è una fine annunciata. È stata una fine, ancorché brutale e oltraggiosa, decente, da beduino che non sarebbe scappato né si sarebbe arreso, come aveva pronosticato fin dall’inizio il vescovo di Tripoli, monsignor Martinelli che lo conosceva bene (…)» E proseguendo a pagina 3 l’editoriale ha un nuovo titolo “Perché la primavera araba è morta in Libia” e si legge: «(…) Con la morte del tiranno Gheddafi è morta anche la primavera araba, anche se venisse rispettato il cronogramma presentato dai vincitori (…)» e ancora in conclusione «La primavera araba è morta in Libia, nel linkage perverso tra le petro-monarchie feudali del Golfo e l’occidente democratico accorso a salvare i valori della democrazia e dell’umanità per salvare i valori del petrolio». Le due pagine interne dedicate alla morte di Gheddafi titolano “La grande festa a Gheddafi”. Valentino Parlato scrive “Il Gheddafi che io ho conosciuto”, articolo in cui si mischiano i ricordi dello stesso Parlato che scrive: «Sono molto legato alla Libia (e un po’ lo ero anche a Gheddafi) perché ci sono nato, lì c’è stata la mia formazione politica e diventai comunista (…)» accanto ai ricordi, quello del primo incontro con il Colonnello per un’intervista e conclude con questa considerazione: «Pur considerando tutti i limiti e gli errori di Gheddafi, la sua caduta – sempre a mio parere – segnala la sepoltura delle primavere arabe e un nuovo inizio di un intervento coloniale delle potenze occidentali in Africa, e non credo si possano riporre molte speranze negli ex gheddafiani che dovrebbero costituire il nuovo governo della Libia».

Sobrietà. Sicuramente è questa la cifra scelta dal SOLE 24 ORE per dare conto della fine del dittatore libico. In prima pagina una foto pre-condanna a morte, e solo a pagina 9 il resoconto della fine con la foto di Gheddafi ferito appoggiato alle gambe di un insorto. Fine delle immagini. Il commento alla vicenda, sotto il titolo “Epilogo feroce come la sua vita”, è affidato a Alberto Negri: «Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una fine così feroce e crudele», esordisce, anche perché subito dopo le prime rivolte scoppiate il 17 febbraio «si pensava che avrebbe avuto facilmente ragione dell’opposizione» e invece, complici notizie di massacri e fosse comuni, la risoluzione Onu del 17 marzo ha decretato la sua fine. Eppure, nota Negri, Gheddafi «ha avuto una sua grandezza» nonché «ambizioni intellettuali» e voglia di «cambiare il mondo». La sua colpa? Mancare «l’obiettivo più importante, quello di costruire uno Stato moderno»: infatti la Libia non ha mai avuto elezioni, apparato statale e neppure un esercito vero e proprio, quindi oggi «si tratta di rifare uno Stato dalle fondamenta: la sua eredità in questo senso è stata più disastrosa di qualunque altro dittatore del Maghreb».

Pierluigi Magnaschi firma su ITALIA OGGI l’unico pezzo: “Il dopo Gheddafi può essere anche peggio”che il quotidiano dei professionisti dedica alla morte di Gheddafi. Magnaschi prospetta due scenari: che a un regime militare segua un altro sempre militare; oppure che il potere vada nelle mani degli estremisti islamici. «E se gli estremisti mettono le mani sugli immensi giacimenti petroliferi libici» sostiene Magnaschi «essi non ne faranno un uso economico (come faceva l’ultimo Gheddafi) ma ne faranno un uso politico».

Una foto del Colonnello ai suoi «tempi d’oro» accanto a un soldato di oggi che festeggia, la bandiera tricolore issata sul kalashnikov. È così, in prima pagina, che AVVENIRE racconta per immagini la svolta di ieri. Guardando in avanti. Sotto il titolo «Guerra finita, pace da fare». Alla morte di Gheddafi il quotidiano della Cei dedica le prime sette pagine, a fare da fil rouge una testatina con il profilo nero, controsole, del colonnello e la scritta «la fine del dittatore» (concetto ripreso anche a pagina 6, nella ricostruzione della carriera politica di Gheddafi, sotto il titolo «Muammar lo spietato, i mille volti di un dittatore»). La foto di Gheddafi insanguinato e appoggiato alla gamba di un soldato è, in piccolo, a pagina 3: c’è un box che racconta di come Philippe Desmazes, reporter francese, sia riuscito a fare per primo una foto del dittatore ferito, un fermoimmagine preso dal cellulare di un soldato che stava mostrando il video della cattura ai compagni. In generale la scelta è caduta su immagini di ragazzi festanti, militari e non. Per Luigi Geninazzi, che firma il commento in prima pagina, le immagini di Gheddafi ucciso e «trascinato dagli insorti come un macabro trofeo» ricordano più quelle di Ceausescu e Mussolini che non quelle di Saddam Hussain e dinanzi al racconto degli eventi «il sospetto è che si sia trattata di una vera e propria esecuzione, forse ordinata dall’alto per eliminare un prigioniero eccellente che avrebbe creato un mucchio di problemi a livello internazionale e avrebbe costituito forse un macigno insuperabile sulla strada della pacificazione nazionale». La costruzione della pace è poi il focus di AVVENIRE. In prima pagina Vittorio Parsi spiega il Cnt deve «offrire l’occasione per una pace che implichi la reintegrazione del maggior numero possibile di attori nella vita politica della nuova Libia», sfruttando la consapevolezza che la fine del rais «scioglie i capi tribù dal dovere di lealtà senza che il loro onore ne sia macchiato, ma non lo trasferisce automaticamente su nessun altro». Dal punto di vista internazionale, invece, Parsi auspica che nessuno pensi di lasciare in Libia un contingente di “mentori” e soprattutto che ora a bocce ferme si rifletta su come un intervento umanitario si sia potuto trasformare in un’operazione volta al cambio di regime e per di più non sotto la guida usa ma anglo-francese: «prima prova di successo di una concordata divisione degli oneri» e degli interessi occidentali sull’area mediorientale. Il pezzo di Giorgio Ferrari invece riferisce di un Jibril che parla di una Libia «nuova, unita e democratica». Jibril conosce pregi e difetti della democrazia, scrive Ferrari, «non possiamo dire altrettanto del popolo libico. Di quello che dovrebbe essere il pane quotidiano della democrazia non sanno nulla».

«Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni», «Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme – sia essa Gesù o Gheddafi – degradano chi li compie a un rango subumano». A scriverlo nel “Buongiorno” è il vicedirettore de LA STAMPA Massimo Gramellini, che ricorda come fino a tre anni fa il ministro degli Esteri Frattini definisse Gheddafi «un grande alleato dell’Italia» e adesso definisca la sua barbara fine «una grande vittoria del popolo libico». Oggi LA STAMPA apre con il titolo “L’ultimo giorno di Gheddafi”, aprendo il servizio con un reportage dell’inviato a Tripoli, che racconta la giornata di ieri a Sirte. La capitale libica “esulta” titola un pezzo di taglio basso, piazza dei martiri si è riempita di persone, soprattutto donne, madri dei caduti nelle battaglie della rivolta. Nel “Retroscena” a pagina 7 la prospettiva Nato: “Guerra quasi finita, ma si rischia quella civile. Oggi si terrà il Consiglio dell’Alleanza atlantica per discutere dell’exit strategy dalla Libia. Un bel primo piano a pagina 8-9 firmato da Maurizio Molinari racconta i quarant’anni al potere del Colonnello.

E inoltre sui giornali di oggi:

ETA
IL GIORNALE – A pag 18, “Mezzo secolo di stragi. Ma adesso l’Eta abbandona la guerra”, sull’annuncio dei terroristi baschi della fine della lotta armata.

BANCA D’ITALIA
SOLE24ORE – La “notizia” per il è sicuramente la designazione di Ignazio Visco al vertice di Bankitalia. Alla questione sono dedicate le prime cinque pagine, e in prima Stefano Folli riflette sul processo che ha condotto alla scelta: la vicenda suscita, per Folli, «amarezza per come è stata condotta», visto che s«ono emersi i limiti di chi aveva la responsabilità di scegliere e si è barcamenato un po’ troppo». Il colpevole, chiaramente, è il governo che «ha perso un’occasione. Poteva offrire all’Europa un segno immediato di solidità e di coesione», mentre il vincitore è il Quirinale, che ha saputo avviare «un percorso condiviso» con Palazzo Chigi, anzi quasi «una diarchia» che ha portato al nome giusto, quello in grado «puntellare e consolidare la credibilità complessiva della posizione italiana» nei confronti dell’Europa.

VOLONTARI
CORRIERE DELLA SERA – A pagina 50, all’interno di Trovalavoro, un pezzo interessante: “L’Europa cerca nuovi volontari”. Scrive Sara Bicchierini: “Dal teatro con i ragazzi emarginati in Francia ai sentieri da tracciare nelle riserve greche. Per i giovani tra i 18 e i 30 anni l’opportunità di rendersi utili all’estero arriva con il Servizio di Volontariato Europeo (SVE), un’iniziativa prevista dal programma Gioventù in Azione della Commissione Europea. Tantissimi i progetti no profit a cui si può partecipare: cultura, sport, ambiente, attività nel sociale, arte e cooperazione allo sviluppo sono solo alcuni degli ambiti in cui i ragazzi sono chiamati a fare la differenza. La durata minima del servizio è di 2 mesi, che diventano 2 settimane se i partecipanti provengono da contesti socio-economici svantaggiati o se i progetti coinvolgono almeno 10 volontari; quella massima è di 12 mesi. Il costo? Praticamente niente. Il programma copre infatti il 90% delle spese di viaggio e garantisce vitto, alloggio, assicurazione, accesso ai trasporti pubblici locali e un piccolo pocket money mensile (circa cento euro) che varia in base al Paese. Per formare i volontari sono previsti incontri preparatori e corsi di lingua. Tra le destinazioni non c’è solo l’Europa: si possono scegliere progetti nei Balcani, nel Caucaso, nell’area del Mediterraneo o addirittura in Sud America. Sono previste cinque scadenze annuali (le prossime sono il 1 novembre e il 1 febbraio) e per partire è necessario contattare con qualche mese di anticipo uno degli enti di invio accreditati in Italia (l’elenco è sul database europeo Sve all’indirizzo http://ec.europa.eu/youth/evs/aod/hei_en.cfm). Per maggiori informazioni, consultare il sito dell’Agenzia Nazionale per i Giovani www.agenziagiovani.it”. 

ECONOMIA
AVVENIRE – Intervista al filosofo Carlo Sini, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro “Del viver bene”: «all’origine dell’economia c’è il meccanismo del dono». Per uscire dalla crisi non servono strumenti finanziari che «non fanno altro che replicare gli errori già fatti» ma «una nuova idea di società e gestione delle risorse, a livello filosofico prima che economico. Penso alla nascita di una “economia delle occasioni», in cui «tutti lavorano per generare occasioni per chi viene dopo, a partire da adesso. Solo così è possibile impiantare un’economia del dono in un’economia di scambio».

ROMA
CORRIERE DELLA SERA – Due pagine dedicate al disastro meteorologico di ieri nella Capitale, 28 e 29. Da segnalare le reazioni politiche, registrate a pagina 29: “Il maltempo e lo scontro. Dopo il nubifragio sulla Capitale, maggioranza e opposizione litigano. Inizia Enrico Gasbarra, deputato del Pd: «A Roma — dice — si muore per una pioggia. Una riflessione da fare quando il governo taglia i fondi ai Comuni e rovina la vita alle persone fino alla morte». La replica arriva da Marco Reguzzoni, capogruppo della Lega: «Intervento di sciacallaggio. L’ultimo Comune che può dire qualcosa sui fondi è Roma». Poi l’affondo: «Roma i soldi ce li ha: il problema è che li usano per fare i festival del cinema, anziché togliere le foglie dalle condotte. Usino meglio i fondi che hanno». Le parole di Reguzzoni dividono il centrodestra. Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali, difende il leghista: «Lo ringrazio per aver difeso l’immagine di Roma». Barbara Saltamartini (Pdl) lo critica: «Reguzzoni è ancora amareggiato per la sentenza sull’illegittimità dei ministeri a Monza»”. E Alemanno: “Per il sindaco, la colpa è del meteo e del sistema fognario: «La rete è datata e l’evento è stato straordinario: sono caduti 74 millimetri d’acqua in un’ora e mezza, il nubifragio non era atteso, l’allerta meteo di ieri parlava solo di temporali». Replica la Protezione civile: «Avevamo dato l’allarme»”.

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