Cultura

Gheddafi, l’ultima notte del Raìs

Il 20 ottobre di 4 anni fa veniva ucciso a Sirte il colonnello Gheddafi. Chi era l'uomo più temuto dai governi occidentali che, ipocritamente, solo poche settimane prima gli stendevano tappeti rossi e lo accoglievano con grandi sorrisi? Forse un uomo solo, come ogni uomo perso nel labirinto del potere. Ne parliamo con Yasmina Khadra

di Marco Dotti

Il 20 ottobre 2011 terminava la sua corsa Mu'ammar Gheddafi. Il "Fratello Guida" – cosi voleva essere chiamato – che sognava di guidare le masse, si è trovato tragicamente solo, braccato dagli avversari e dai fantasmi di sempre. Ne parliamo con Yasmina Khadra, scrittore algerino che ha pubblicato il romanzo L'ultima notte del Raís, edito da Sellerio.

La libertà dell’uomo è incompleta se da un altro uomo dipendono i suoi bisogni. Lo stato di necessità può far diventare l’uomo schiavo di un altro uomo. Lo sfruttamento è motivato dal bisogno, che è un problema reale. Il conflitto ha inizio quando qualche altra parte è arbitra dei bisogni dell’uomo.

Muammar Gheddafi, Il libro verde (الكتاب الاخضر), 1975

Nell'Ultima notte del Raís lei raffigura non solo un tiranno, ma anche un uomo perso nel suo labirinto…
Volevo scrivere un racconto sul potere che avesse la struttura della tragedia, con tutti i suoi elementi di unità di spazio, di tempo e di azione. Una tragedia sull'ultima notte di un uomo di potere, ma al tempo stesso non parlare di un tiranno in particolare, ma della figura del tiranno.

Perché Gheddafi e non altri?
Perché Gheddafi presentava, per me, tratti romanzeschi particolari. È nato da famiglia beduina, ma nessuno ne conosce il padre. Se non hai un padre, tra i beduini, non sei nessuno. Ma Gheddafi voleva essere qualcuno. Per questo ha lottato, ha studiato, è entrato nell'esercito e si è preso tutto guidando il colpo di Stato del 1 settembre 1969. Per 42 anni Gheddafi ha retto il Paese, ma dentro di lui risuonava quella ferita: chi era suo padre? Era davvero un "bastardo" come insinuavano i suoi nemici? Anche la lingua di Gheddafi era molto particolare, io ho cercato di dargliene una in francese, lingua in cui scrivo i miei libri.

Il suo lavoro è ricco di aneddoti in tal senso. Penso all'ossessione – anche questa risale all'adolescenza – per Van Gogh e un suo autoritratto. Per capire un incubo ricorrente – legato proprio a Van Gogh – Gheddafi consultò anche un famoso imam, ma senza scioglierne l'enigma..
Quando ero sottotenente e frequentavo l'accademia militare a Mosca, per dei corsi, tra noi c'era un famoso generale libico. Lui era sempre accompagnato da belle ragazze, ma non sapeva ballare. Allora invitava anche me, che so ballare molto bene. Lui beveva e beveva, mentre noi ballavamo. Una sera che aveva bevuto molto, mi raccontò molte cose su Gheddafi che lui conosceva bene. Ecco da dove vengono alcune informazioni. Gli altri, sono aneddoti poco conosciuti in Europa, ma fanno parte della biografia ufficiale del raís.

Gheddafi era molto giovane quando andò al potere. Anche se non aveva il fascino e il carisma del suo ispiratore Nasser, non si può negare abbia a larghi tratti esercitato una certa fascinazione, non solo sul mondo arabo, ma anche fra tutti coloro che si battevano per politiche antimperialiste.
Gheddafi ha tentato di unire il popolo arabo, il progetto andava oltre la Libia. Era giovane, era bello, era abile, e veniva dagli strati più poveri della popolazione. Come non guardarlo affascinati? Poi, come sempre accade ai leader arabi, corrotti o corruttori o entrambe le cose assieme, è diventato altro.

Quando, secondo lei, è diventato altro?
Quando è stato lasciato solo. Allora è nato il tiranno, col suo harem, le sue violenze, lo sfarzo e le ricchezze. Tutto è nato là. Anche lo scollamento con la realtà.

La solitudine dell'infanzia si è legata a quella del raís… Anche i giudizi sprezzanti verso Ben Alì, che descrive grasso – "un ciccione ampolloso" – e pieno di "carisma da quattro soldi" danno il senso della tragedia: Gheddafi ha sottovalutato quanto stava accadendo attorno alla Libia. "Ben Alì è scappato", ma lui, Gheddafi, fino all'ultimo, no… Non scappa e non si rende conto, crede che il popolo sia con lui, lo crede fino all'ultimo… Non crede possibile che la violenza in Libia possa scoppiare e, una volta scoppiata, non crede di non poterla sconfiggere…
Il popolo aveva sempre sostenuto Gheddafi. Gheddafi credeva di essere addirittura adorato. Il nostro è un popolo che mostra le proprie emozioni. È un popolo sempre dalla parte del capo, chiunque esso sia. C'è forse qualcosa di tribale che ci lega ancora. Perché nelle culture tribali il capo è come un dio, non lo puoi contestare. E Gheddafi quando andava per strada vedeva questa euforia popolare, se ne inebriava. Non aveva quindi un contatto diretto con la realtà. Il popolo era il suo specchio. E lui vedeva il suo narcisismo riflettersi in questo specchio. Pensava di essere nel giusto, perché tutti lo applaudivano. Per questa ragione, quando il popolo ha cominciato a ribellarsi in Tunisia non ha preso la cosa sul serio. Lui era Gheddafi, l'acclamato, l'eletto. Non aveva coscienza che i popoli possono essere portatori di una rivoluzione, e che altri uomini potessero incarnare la rivoluzione. Lui era già la Rivoluzione.

Questo fino all'ultimo secondo di vita?
Sì, fino alla fine. Fino alla fine attendeva un miracolo. Anche negli ultimi video della sua vita si capisce che è un uomo senza paura, ma che non comprende. Era un uomo indignato con se stesso perché non riusciva a risvegliarsi, a capire. Era solo un incubo da cui si doveva risvegliare.

Non a caso, Gheddafi si è sempre consideraro portatore di un messaggio…
Un messaggio divino. Per tutta la vita ha creduto e fatto credere di essere protetto da Dio. Ha iniziato a 27 anni, è scampato a attentati, complotti, gli americani negli anni Ottanta gli hanno bombardato la casa, poi nell'ultimo periodo la sua casa è stata distrutta, sono morti la moglie di suo figlio e suo figlio e i figli di suo figlio ma lui, l'eletto, il messaggero, usciva sempre indenne. Qualcosa gli diceva "tu sopravviverai". Una voce lo induceva a non temere e a non disperare. Quando ha visto ciò che stava accadendo in Tunisia ha pensato fosse tutto normale, perché Ben Alì non era per lui un presidente, ma un usurpatore, un gangster. Ma lui, Gheddafi, si riteneva un rivoluzionario. Non erano nelle stesse condizioni. Detto questo, io non sono un sostenitore di Gheddafi. Lo detesto e l'ho sempre detestato. Ma va capito a fondo, per capire la solitudine e la tragedia del potere. Detesto Gheddafi come detesto tutti i governi arabi.

Perché li detesta?
Perché ci hanno impedito di sognare. Ci hanno impedito di avere delle ambizioni. Perché ci hanno impedito di essere liberi. Gheddafi ha fatto proprio questo. In nome del popolo, si è sostituito al suo popolo. E chi si sostituisce a un popolo è solo un folle. Un folle e un tiranno.

L'ospite

Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, è uno scrittore stimato e apprezzato nel mondo intero. Nato in Algeria nel 1956, reclutato alla scuola dei cadetti a nove anni, è stato ufficiale dell’esercito algerino. Dopo aver suscitato la disapprovazione dei superiori con i suoi primi libri, ha continuato usando come pseudonimo il nome della moglie. Nel 1999 ha lasciato l’esercito svelando così la sua vera identità e ha scelto di vivere in Francia. In Italia si è conquistato un pubblico grazie a due noir, Morituri (1998) e Doppio bianco (1999), editi da e/o. In seguito sono usciti Cosa sognano i lupi? (Feltrinelli, 2001), e poi con Mondadori Le rondini di Kabul (2003), La parte del morto (2005),L’attentatrice (2006, del 2013 è il film di Ziad Doueiri), Le sirene di Baghdad (2007) e Quel che il giorno deve alla notte (2009), miglior libro del 2008 per la rivista letteraria Lire, adattato al cinema nel 2012. Con Sellerio ha pubblicato Gli angeli muoiono delle nostre ferite (2014), Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini (2015) e L'ultima notte del Rais (2015).

Foto GettyImages

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