Medio Oriente
Gaza, senza aiuti umanitari la condanniamo a morte
Continua ad aumentare il numero dei civili morti e feriti dentro e fuori la Striscia di Gaza, dove ora è attivo un blocco: non entrano carburante, cibo e medicine. E le scorte stanno finendo. Ma qui vivono due milioni e 300mila persone
di Anna Spena
È difficile trovare un punto di equilibrio nel racconto di quello che sta succedendo tra Israele e Palestina senza cadere nella tifoseria da stadio.
Ma l’abbiamo scritto in questo pezzo “Guerra a Gaza, i civili perdono sempre”, che significa che i civili, i bambini, gli innocenti, di entrambi i lati, sono gli unici sconfitti dell’ennesima tragedia a cui assistiamo, una tragedia che non nasce oggi. Ma i dati degli ultimi quattro giorni, per ora, sono questi: 900 i morti israeliani, oltre duemila i feriti, circa cento le persone rapite dai militanti di Hamas. E ancora 687 il bilancio delle vittime palestinesi dopo i raid israeliani, 3.726 i feriti. Il ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, ha ordinato un assedio totale di Gaza: «Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto sarà chiuso. Stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza». Ma a Gaza non vivono animali, ma due milioni e 300mila persone, quasi la metà sono minori. Oltre due milioni di persone che stanno pagando le conseguenze del massacro ad opera di Hamas, ma Hamas che ha lanciato un attacco missilistico su Israele, sfondato le barriere e colpito le colonie in prossimità della Striscia, attaccando anche un rave party in corso nel deserto del Neghev, non sono tutti i palestinesi.
«La Striscia di Gaza non è autonoma», racconta Dina Taddia, direttrice generale dell’organizzazione umanitaria WeWorld, che da 30 anni lavora nella Striscia di Gaza e Cisgiordania. «È una striscia di terra sabbiosa lunga quaranta chilometri e larga dai cinque ai sedici. La metà degli abitanti vive nei campi profughi. Una striscia di terra senza possibilità di uscita». Il valico di Erez, unica frontiera utilizzabile dalle persone per uscire verso Israele e controllato dai militari israeliani, ora è chiuso. Non si hanno ancora informazioni chiare sulla reale possibilità di uscita dal valico di Rafah, a sud della Striscia, frontiera controllata da primo presidio dell’esercito israeliano e poi dalla polizia di frontiera egiziana.
Attualmente, per motivi di sicurezza, tutte le attività di WeWorld, nella Striscia di Gaza e nel resto della Cisgiordania, sono state congelate: «L’indicazione che abbiamo dato ai nostri operatori», spiega Taddia, «sei internazionali e quaranta operatori di staff locale, è quella di lasciare le proprie abitazioni solo in caso di strettissima necessità. La preoccupazione è ancora più alta per i nostri operatori locali che lavorano nella Striscia, ad oggi sono dieci ai quali abbiamo proposto di rifugiarsi nei nostri uffici localizzati in un’area storicamente più sicura. Abbiamo inoltre anticipato fondi perché potessero comprare beni di prima necessità sempre più difficili da reperire».
Questo perché tutto quello che entra a Gaza viene importato o da Israele o dall’Egitto: dalla benzina al cibo. E con il blocco totale imposto da Israele, nella Striscia non entra niente. E le scorte finiranno presto. «La preoccupazione», aggiunge Taddia, «è che quando finirà il gasolio per i generatori non ci sarà più elettricità, ciò significa che anche le comunicazioni saranno interrotte». E la Striscia è pesantemente bombardata in queste ore: «Negli ultimi anni», spiega Taddia, «si sono salinizzate tutte le falde acquifere. Quindi anche l’acqua deve essere desalinizzata, ma senza elettricità i depuratori non funzionano. L’assenza di elettricità mette a rischio anche le attività degli ospedali: i macchinari si fermano e se salta la catena del freddo, le scorte di farmaci diventano inutilizzabili». La situazione era già drammatica dal punto di vista umanitario prima dell’attacco di Hamas a Israele, ora siamo vicini ad una catastrofe umanitaria. La Striscia di Gaza è, di fatto, una prigione a cielo aperto. E da sedici anni i palestinesi entrano ed escono solo con un permesso speciale che rilascia – e spessissime volte non rilascia – il governo di Israele. La situazione è drammatica e molto tesa anche nel resto dei territori occupati della Cisgiordania. Israele è il Paese con più sanzioni Onu al mondo per la violazione dei diritti umani a danno della popolazione palestinese, c’è il rischio di scontri tra i militari israeliani e i palestinesi anche nelle altre città del West Bank.
«Il 2023 è un anno di violenze senza precedenti», dicono da Aoi, Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale. «Dall’inizio dell’anno, già più di 200 Palestinesi sono morti per mano israeliana, inclusi almeno 38 bambini e bambine; un numero di vittime già maggiore di quello registrato in tutto il 2022». Alle vittime palestinesi si aggiungono anche quelle israeliane: «La popolazione civile non deve mai essere un obiettivo di qualsivoglia azione armata. Continuare a raccontare questi momenti come episodi isolati non solo non restituisce il quadro di una situazione di crisi protratta, ma rischia di costituire un ulteriore ostacolo alla pace. Il disinteresse e l’immobilità della comunità internazionale nei confronti della occupazione e della colonizzazione israeliana in Palestina ha creato un clima di impunità di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani commesse da Israele in Palestina: attacchi dei coloni, incursioni mirate, demolizioni di infrastrutture, arresti arbitrari e uccisione di civili sono all’ordine del giorno. Bisogna agire per un immediato cessate il fuoco e per la riapertura di un tavolo di negoziato basato sulle norme e sui principi dei diritti umani e del diritto internazionale; far ripartire immediatamente la macchina della diplomazia, per porre fine dell’occupazione militare e alla colonizzazione israeliana in Palestina, incluso il blocco che da 15 anni affligge la striscia di Gaza, nel pieno rispetto del diritto internazionale e garantire in tempi rapidissimi e senza restrizioni le operazioni di soccorso della popolazione civile, che come sempre sarà la vera vittima di questa ennesima ondata di violenze».
La rivista dell’innovazione sociale
Disponibile anche in formato digitale.
Per leggerci tutto l’anno, ovunque e su ogni device.
Anche Fondazione Cesvi è presente in Palestina da diversi anni, i primi progetti sono partiti nel 1994. «Gaza è sotto bombardamento a tappeto da sabato mattina e si attende l’invasione militare israeliana via terra. In Cisgiordania è pericoloso spostarsi e i check point sono quasi tutti chiusi o interrotti», spiega Simone Balboni, capo missione Palestina per l’organizzazione. «Con i nostri progetti ci soffermiamo in modo particolare su wash e enviroment». Anche la loro attività, per questioni di sicurezza, è ferma. «Siamo in contatto costante con i colleghi di Gaza e i colleghi di Gerusalemme e della Cisgiordania. Questi alcuni dei messaggi che hanno condiviso con noi: “L’intensità dei bombardamenti lanciati dall’esercito israeliano verso Gaza è insolita e mai vista prima, una situazione incredibile a Gaza” e ancora “Grazie a tutti per il sostegno e le parole gentili, sono ancora vivo ma non sto bene, l’ultima notte è stata molto dura, i bombardamenti non si sono fermati, non c’è elettricità, non c’è acqua e non si dorme. siamo molto stanchi e depressi”».
«Il progetto, attivo fino a pochi giorni fa, nella Striscia di Gaza si sviluppava a Beit Lahiya, municipalità a nord di Gaza vicino al confine con Israele, in una delle zone che sono sempre maggiormente colpite durante ogni escalation. La zona ora è sotto fitto bombardamento, le famiglie cercano un posto sicuro dove rifugiarsi. Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente) sta già ospitando circa 138mila sfollati nei propri edifici (principalmente scuole), ma la capienza e le scorte sono quasi in esaurimento. Il peggioramento della situazione ambientale con accumulo di rifiuti non raccolti esporrà la popolazione anche a rischio di contagio ed infezioni. Abbiamo attività anche a Betlemme e a Hebron. In tutti i casi, la ripresa dei progetti ora non è lontanamente pianificabile».
Moltissima confusione sugli aiuti umanitari: nella giornata di ieri l’Unione europea aveva annunciato la sospensione dei fondi alla Palestina. Poi ha fatto marcia indietro: Ora, secondo quanto riporta un comunicato, i pagamenti sono in revisione, anche perché «non erano previsti pagamenti, dunque non ci sarà alcuna sospensione». Secondo le dichiarazioni l’obiettivo è garantire che nessun finanziamento dell’Ue consenta indirettamente a un’organizzazione terroristica di compiere attacchi contro Israele. La revisione riguarderà tutti i pagamenti attualmente in corso, con i “progetti sottoposti a revisione” mentre tutti i nuovi stanziamenti di bilancio, compresi quelli per il 2023, saranno rinviati. Poi l’ennesima specifica: «la revisione riguarda i fondi destinati ai progetti di sviluppo non gli aiuti umanitari».
Foto: Gaza, Palestine: A paramedic enters an injured person to the emergency department at Al-Shifa hospital after retrieving him from the scene of the bombing. © Saher Alghorra/Avalon/Sintesi
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.