Medio Oriente

Gaza, noi cooperanti tra tregua e burocrazia

Aumenta l’ingresso di camion carichi di beni di prima necessità, sono circa 600 al giorno. Ancora troppo pochi per rispondere ai bisogni di una popolazione stremata. Nella Striscia di Gaza c’è bisogno di più cibo, più medicine, più ospedali funzionanti, più tende per i 1.9 milioni di sfollati. Le ong internazionali, le associazioni locali, le agenzie dell’Onu stanno lavorando insieme per far funzionare una logistica complessa dentro i confini di una tregua fragile: «Proviamo a fare l’impossibile. Ma ci sentiamo come un cerotto sull’emorragia»

di Anna Spena

Striscia di Gaza. Ventesimo giorno della prima fase della tregua tra Israele e Hamas. Le bombe hanno smesso, per ora, di cadere. Un cessate il fuoco che ha dato il via da un lato alla liberazione degli ostaggi e dall’altro ad una parentesi di respiro per i palestinesi e per gli operatori umanitari che ora hanno condizioni di sicurezza – almeno quelle minime – per lavorare. Ma cosa resta dopo 15 mesi di guerra nella Striscia di Gaza?

Inevitabilmente le ong hanno dovuto riconsiderare le loro modalità di azione. Giovanni Malavasi è l’head of programmes dell’organizzazione umanitaria WeWorld per la Striscia di Gaza. L’ong è una presenza storica nella Striscia: ci lavora dalla fine degli anni Novanta. Ora è lui a coordinare da Amman, la capitale della Giordania, un ufficio completamente dedicato alla gestione dell’emergenza nella Striscia. È composto da cinque persone che lavorano a strettissimo contatto con i 15 operatori, tutto staff locale (prima del 7 ottobre 2023 erano 20 ndr) che manda avanti le attività all’interno della Striscia. «La nostra ong», spiega Malavasi, «aveva un ufficio a Gaza City. La struttura è stata bombardata e danneggiata dopo i primi mesi di guerra. In questa fase di tregua stiamo valutando la riapertura».

«Vista la complessità dell’emergenza a Gaza», continua Malavasi, «è stato necessario aprire un ufficio in Giordania che, ad oggi, rappresenta un punto di vista privilegiato per l’accesso diretto alla Striscia. Soprattutto dopo che Israele ha adottato politiche per il rilascio di visti sempre più restrittive. Una delle difficoltà che registriamo noi come ong – e immagino anche tutte le altre – è quella di non avere visibilità non dico sul lungo, ma almeno sul medio periodo».

Complessità

Sono circa 200 le ong – internazionali, tra cui molte italiane, e locali – che lavorano a Gaza insieme alle agenzie internazionali – da Unicef al World Food Programme. Insieme, ognuno per la propria area di competenza, provano a tenere in piedi un meccanismo complesso che parte dal reperimento dei beni di prima necessità fino all’ingresso e alla distribuzione nella Striscia. Un meccanismo che va dal supporto mentale all’apertura di nuovi presidi sanitari. Dobbiamo ricordare che la presenza delle ong nella Striscia e nel resto della Cisgiordania non è scontata. Prima del 7 ottobre 2023 le organizzazioni venivano registrate dal ministero israeliano degli affari esteri e sociali. Ai cooperanti veniva rilasciato un visto di lavoro rinnovabile fino a cinque anni. A novembre 2023, il ministero degli affari sociali ha esteso in automatico fino al febbraio 2024 tutti i visti in scadenza. È passato un anno e, ormai, nessun visto viene più rinnovato e neanche ne sono stati rilasciati di nuovi. Quindi il numero dei cooperanti internazionali presenti nella Striscia di Gaza e nei territori occupati si è abbassato. Dallo scorso dicembre, inoltre, ad essere cambiata è anche la modalità di registrazione delle ong in Israele (registrazione necessaria per lavorare a Gaza e nel West Bank). L’accreditamento delle realtà infatti non fa più capo al ministero degli affari esteri ma ad un altro dipartimento – di cui ancora non si hanno informazioni chiare – che farà capo al ministero per la diaspora e l’antisemitismo. 

La mancanza di un accesso umanitario senza restrizioni verso, da e all’interno dei Territori palestinesi occupati ha ostacolato in modo significativo l’efficace fornitura di assistenza umanitaria e protezione dei civili, aumentando al contempo i tempi e i costi coinvolti. Nel tentativo di migliorare l’assistenza e di aumentare la protezione, l’Unità di coordinamento interagenzia dell’accesso (Acu) delle Nazioni Unite ha sviluppato una strategia di accesso centralizzata, proattiva e sostenibile per il movimento di personale e beni umanitari e di sviluppo, fornendo al contempo consulenza pratica e supporto per le sfide di accesso sul campo. «Si fa richiesta all’Acu per entrare nel loro sistema di rotazione e attraverso l’Agenzia si ottiene un transit visa per entrare a Gaza», dice Malavasi.

Malavasi – che aveva già lavorato a Gaza nel 2006 – sta aspettando un visto, che dovrebbe essergli concesso tra poche settimane, per rientrare nella Striscia. «Già allora era una prigione a cielo aperto. Ma c’era comunque una vitalità straordinaria nelle persone. Le immagini che vediamo oggi sono di devastazione assoluta, uno scenario post atomico». WeWorld, già nel mese successivo all’inizio del conflitto, ha lavorato per garantire alla popolazione acqua potabile, latrine di emergenza e kit igienici. «Abbiamo raggiunto quasi 974mila persone grazie al nostro team locale. E ci tengo a sottolineare che i nostri operatori – che pure sono vittime del conflitto – hanno lavorato in maniera instancabile. L’80% del nostro staff è sfollato e vive – come la maggioranza dei gazawi – nelle tende. Da quando è iniziata la tregua siamo riusciti a far entrare altro materiale attraverso il corridoio di Kerem Shalom, qui viene preso in carico dal logistic cluster delle Nazioni Unite e poi distribuito alle organizzazioni. Prima dell’inizio della tregua entravano – e non tutti i giorni – circa 50 camion di aiuti. Ora, invece, ne entrano circa circa 600 al giorno. Ma tutti temiamo che la guerra possa ricominciare da un momento all’altro. La situazione è catastrofica dal punto di vista umanitario, c’è bisogno di tutto e se anche la tregua dovesse durare non c’è nessuna attività produttiva che potrà garantire la sicurezza alimentare in tutta la Striscia». Ma quali sono i numeri del disastro che stanno fronteggiando le ong?

I numeri di una tragedia

Secondo i dati Ocha, l’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, aggiornati al 4 febbraio 2025, i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, dal 7 ottobre 2023, sono stati 47.540. Oltre 111mila, invece, è il numero dei feriti. Nella Striscia di Gaza, 365 chilometri quadrati, vivono 2.1 milioni di persone: il 95% della popolazione sta affrontando e affronterà livelli di insicurezza alimentare acuta. Tra le vittime di questi mesi anche 384 operatori umanitari (377 nazionali, 7 stranieri), 1.060 operatori sanitari, 198 giornalisti e operatori dei media. Un milione di bambini ha bisogno di supporto psicologico. Solo il 51% degli ospedali è parzialmente funzionante (1 a Gaza Nord, 10 a Gaza City, 3 a Deir al Balah, 4 a Khan Younis). Il 92% di tutte le case è stato distrutto o danneggiato: 1.9 milioni di persone sono sfollate. Anche più dell’80% delle strutture commerciali è stato distrutto. Sono 42 i milioni di tonnellate di macerie che si son accumulate e 14 la stima degli anni che servirebbero per rimuoverle. Dai 12mila ai 14mila pazienti necessitano di essere spostati all’estero per essere curati (dalla chiusura del valico di Rafah il 7 maggio 2024 e fino al 15 gennaio 2025, prima dell’entrata in vigore della tregua, è stato possibile spostare solo 458 pazienti, tra cui 276 bambini). Dalla riapertura del valico di Rafah il primo febbraio e fino al 3 febbraio, 105 pazienti, tra cui 100 bambini, e 176 accompagnatori sono stati evacuati fuori Gaza. E mentre pochi giorni fa Donald Trump ha annunciato il “piano” – raccapricciante – di trasformare la Striscia di Gaza nella “Riviera del Medio Oriente” affermando che gli Stati Uniti “prenderanno il controllo” della Striscia e che i palestinesi dovranno trasferirsi nei Paesi vicini, a Gaza c’è un altro esercito – quello dell’umanitario – che non ha mai smesso di stare dalla parte della popolazione. E che è riuscito ad aumentare le capacità di intervento su tutti i fronti, consapevole però di muoversi nel perimetro di una tregua fragile. 

Serve più acqua 

Tra le altre ong italiane che conoscono bene la Striscia anche Fondazione Cesvi che lavora in Palestina dal 1994. «Abbiamo sviluppato», racconta , Pietro Fiore, security advisor della fondazione, «una solida esperienza nella gestione delle risorse ambientali, con particolare attenzione al settore Wash (Water, Sanitation and Hygiene)». La stessa esperienza che oggi gli permette – grazie a un team composto da quattro espatriati – che a rotazione entrano nella Striscia – e nove operatori umanitari locali – di distribuire acqua potabile attraverso camion-cisterna in 40 accampamenti di sfollati a Deir el-Balah e Khan Younis, che sono stati dotati di cisterne per lo stoccaggio dell’acqua: «Ogni giorno vengono distribuiti oltre 100 m3 di acqua», spiega Fiore. «Stiamo lavorando anche ad interventi di pulizia, manutenzione e realizzazione dei canali di scolo per proteggere gli accampamenti dalle inondazioni causate dalle piogge invernali. Quest’attività interessa oltre 40 accampamenti fra Khan Younis, Deir el-Balah e Gaza City e di costruire latrine e servizi igienici negli accampamenti e nei rifugi per gli sfollati a Khan Younis, Deir el-Balah e Gaza City  oltre che alla distribuzione di kit igienici».

Nuove cliniche, la metà degli ospedali è distrutta

“È la prima volta a Gaza?”.
“Sì”.
“Non hai mai visto quello che ti troverai davanti”.

Francesco Sacchi è entrato a Gaza per la prima volta il nove gennaio. È passato per il valico di Rafah. È stato un altro operatore umanitario, che viaggiava sulla sua stessa vettura, a dirgli “Non hai mai visto quello che ti troverai davanti”. Sacchi è il capo missione di Emergency. Come altri operatori umanitari espatriati ha un visto con una validità ristretta. Emergency – dopo alcuni mesi di attesa per ottenere il permesso umanitario – ha iniziato a lavorare nella Striscia lo scorso agosto supportando la clinica da campo allestita ad al-Mawasi, a ovest della città di Khan Younis, nella cosiddetta “area umanitaria” gestita dall’organizzazione locale palestinese Cfta.

L’esterno della nuova clinica di Emergency nell’area di al Qarara

E lo scorso dicembre l’ong aveva avviato la costruzione della sua nuova clinica di salute primaria nell’area di al Qarara, dove vivono accampate in tende circa 15mila persone sprovviste di servizi sanitari. La  località si trova sempre all’interno della cosiddetta area umanitaria. Alla fine di gennaio la clinica è diventata operativa e oggi offre assistenza sanitaria primaria, primo soccorso, stabilizzazione di emergenze medico-chirurgiche, trasferimento presso strutture ospedaliere, assistenza medico-chirurgica di base per adulti e bambini, attività  ambulatoriali di salute riproduttiva e follow up infermieristico post-operatorio. 

La clinica ha una sala d’attesa esterna, un triage, un pronto soccorso con sala di osservazione, una sala per le medicazioni, quattro ambulatori medici, un ambulatorio ginecologico, una stanza per le vaccinazioni, un dispensario per le medicine, uffici per medico e logista, una sala mensa e un magazzino. «La clinica», dice Sacchi, «prova a rispondere ai bisogni enormi della popolazione che vive in quest’area. La costruzione di questo spazio ha dovuto fare i conti con i lunghi tempi della burocrazia e con l’enorme difficoltà di reperire materiali a causa della difficoltà a far entrare aiuti umanitari nella Striscia in questi mesi. Ora nonostante la tregua i problemi generati da quindici mesi di violenza sono enormi, la  situazione umanitaria è disastrosa e prima di poter raggiungere la normalità sarà necessario un  cammino lungo e difficile. Tra le due strutture visitiamo ogni giorno almeno 250 persone. E tra qualche settimana saremo pronti per tenere aperta la clinica h 24».

Gli sfollati tornano nel Nord della Striscia di Gaza (AP Photo/Abdel Kareem Hana/LaPresse)

La carenza di forniture mediche, soprattutto al Nord

Anche Medici Senza Frontiere lavora a Gaza. «I nostri team», racconta Caroline Seguin, coordinatrice dell’emergenza, «offrono supporto chirurgico, medicazione delle ferite, fisioterapia, cure materne e pediatriche, assistenza sanitaria di base, vaccinazioni e servizi di salute mentale, oltre a distribuire acqua. Tuttavia, le grandi difficoltà dovute alle forniture, ai blocchi e agli ordini di evacuazione su vari ospedali ci hanno costretto a operare in un territorio sempre più ristretto con una risposta limitata. Al momento lavoriamo negli ospedali Al Aqsa e Nasser, in due ospedali da campo a Deir Al Balah e in diverse cliniche di Gaza. Dopo il cessate il fuoco stiamo riadattando le nostre attività per rispondere ai bisogni della popolazione nel Nord della Striscia».

Dall’inizio della guerra gli operatori di Msf hanno condotto 479.651 visite mediche, eseguito quasi 10mila interventi chirurgici e ricoverato oltre 22mila pazienti. «Le terribili condizioni di vita», continua Seguin, «con oltre 1,9 milioni di sfollati costretti a vivere in tende senza riscaldamento e vestiti adeguati, stanno causando un’ondata di malattie legate alle temperature invernali».

In questo momento il personale di Msf è composto da 1072 persone: 40 operatori internazionali e 1032 operatori umanitari palestinesi, dall’inizio della guerra 9 dei loro operatori sono stati uccisi. «Con il cessate il fuoco», dice la coordinatrice di Msf, «migliaia di persone che si trovavano al sud del corridoio di Nazarim sono risalite verso il nord della Striscia. Una zona ormai, se non completamente, in gran parte distrutta. Tutti gli ospedali nel nord di Gaza sono stati danneggiati e non funzionano più. Ora che abbiamo ottenuto accesso all’area, abbiamo visto che ottenere cure mediche per la popolazione è quasi impossibile. Serve urgentemente un massiccio aumento degli aiuti umanitari che devono essere distribuiti su tutto il territorio. C’è una grave carenza di forniture essenziali e infrastrutture mediche, soprattutto ora che circa 550mila persone sono tornate nelle aree settentrionali». Ora che sono entrata in vigore le nuove leggi israeliane che vietano Unrwa la preoccupazione tra gli umanitari cresce: «Israele crea un grave precedente che rischia di compromettere l’assistenza sanitaria per migliaia di palestinesi in Cisgiordania e Gaza. Nel 2024, l’Unrwa ha garantito oltre 6 milioni di visite mediche a Gaza e più di altre 776mila in Cisgiordania. Nessun’altra organizzazione può sostituire questo servizio essenziale: senza l’Agenzia i bambini non verranno vaccinati, le donne incinte non riceveranno cure e chi soffre di malattie croniche sarà esposto a complicazioni prevenibili».

La fame

Gran parte della distribuzione di cibo nella Striscia è affidata al World Food Programme che, già durante la prima settimana di tregua, ha raggiunto più di 330mila persone con pacchi alimentari, pasti caldi e assistenza in denaro alle famiglie esauste dopo mesi di guerra. «La prima settimana ha portato speranza, ma è ancora presto. Dobbiamo mantenere questo passo», aveva dichiarato in una nota  Antoine Renard, direttore Wfp in Palestina. «E con così tante persone che si spostano ora, e che desiderano raggiungere le loro case e riunirsi alle loro famiglie nel Nord, dobbiamo assicurarci che abbiano cibo ovunque si trovino».
Complessivamente il Wfp ha portato 10.130 tonnellate di cibo a Gaza dall’inizio del cessate il fuoco. Il cibo è entrato a Gaza attraverso tutti i valichi disponibili, da Giordania, Israele ed Egitto. Questo ha permesso di aumentare le razioni di cibo, le famiglie ricevono due pacchi alimentari e un sacco da 25 kg di farina. Se si mantiene il cessate il fuoco, il Wfp prevede di raggiungere un milione di persone ogni mese per i prossimi tre mesi.

La Mezzaluna Rossa Palestinese prima di distribuire le tende agli sfollati

La speranza (non basta)

«La tregua ci ha dato speranza», dice Tommaso Della Longa, portavoce della Federazione internazionale delle società di Croce rossa e Mezzaluna rossa. «A Gaza le persone cercano di tornare a quello che è rimasto delle loro case. L’accesso umanitario è aumentato. E la Mezzaluna rossa è riuscita, per esempio a distribuire 45mila libri di acqua: parliamo di una goccia nell’oceano, sia chiaro. Ma fino a prima della tregua sarebbe stato impossibile. Vediamo finalmente gli ostaggi tornare a casa, dalle loro famiglie. E riusciamo finalmente a lavorare anche nel Nord della Striscia. Ma la normalità o il pensiero di una ricostruzioni oggi sono lontanissimi. L’umanitario sta facendo l’impossibile per supportare la popolazione, ma non gli si può chiedere di assumere un ruolo che non è il suo: sono i Governi, è la comunità internazionale che deve lavorare a una soluzione duratura ed efficace di pace».

Gli operatori della Mezzaluna rossa palestinese nella Striscia sono oltre 1300 e lavorano negli interventi di primo soccorso, nel settore della sanificazione e distribuzione dell’acqua, nell’evacuazione dei pazienti, negli ospedali da campo, nella distribuzione di tende per gli sfollati, e nel supporto psicologico alla popolazione: «Ci sono ferite che intere generazioni si porteranno dentro per sempre», dice della Longa. «I bisogni sono immensi».

AP/Photo/Abdel Kareem Hana/associated Press/LaPresse

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