Ho atteso qualche giorno prima di scrivere qualche pensiero sulla nuova vicenda di discriminazione nei confronti di una bambina con sindrome di Down, avvenuta a Gardaland e raccontata dal quotidiano veneto Il Gazzettino e ripresa anche da Vita.it. La vicenda è semplice: gli addetti alla sicurezza del famoso parco divertimenti hanno impedito a una bimba con sindrome di Down di salire su due giostre, catalogate come “adrenaliniche”, ma utilizzabili tranquillamente da migliaia di bambini ogni giorno, perché sicuramente prive di rischi, come l’Ortobruco e la Monorotaia . A questo punto, non essendo il primo episodio della serie, il Coordown, coordinamento nazionale delle associazioni delle persone con sindrome di Down, ha deciso di passare alle vie legali, citando la legge antidiscriminazione n.67/06 e la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Una scelta forte, che si basa, fra l’altro, sul confronto, a parità di giostre, fra il trattamento riservato alle persone con sindrome di Down a Gardaland e a Mirabilandia. Il parco veneto fornisce agli ospiti disabili una guida con le indicazioni sull’accessibilità delle strutture. Il punto dunque non è questo. Appare infatti evidente a chiunque abbia un minimo di buon senso che alcuni tipi di attrazione non sono davvero adatti per chi ha una disabilità fisica, sensoriale o intellettiva. E nessun genitore al mondo sarebbe così incosciente da far correre dei rischi reali al proprio figlio. Possono anche verificarsi, sul momento, reazioni non previste, emotive, che comportano come conseguenza la rinuncia a provare attrazioni che, si sa, sono basate in buona misura sulla paura e sulla carica adrenalinica che possono provocare.
Ma le due giostre citate, anche all’occhio più severo, possono seriamente essere considerate rischiose? E chi lo stabilisce? Eppure la questione non è neppure questa. Sembra sfuggire infatti il problema più insidioso e grave: gli addetti alla sicurezza giudicano l’handicap psichico basandosi sull’aspetto fisico delle persone. In pratica vengono discriminati i bambini con sindrome di Down perché sono “riconoscibili”. Possibile che questo “dettaglio” non suoni agghiacciante a chiunque abbia un minimo di conoscenza della realtà e dei diritti? Sì, è possibile. Basta scorrere i tanti commenti pubblicati in calce all’articolo di cronaca del Gazzettino, Violenti, ai limiti dell’insulto, aggressivi nei confronti dei genitori dei bambini disabili. In molti, senza giri di parole, hanno sentenziato che Gardaland “ha fatto bene” (quasi una citazione da un noto giornale). E nel calderone di insulti sono entrate rapidamente tutte le questioni, anche economiche, di questi mesi. Ossia i cosiddetti “privilegi” di cui godrebbero le famiglie delle persone disabili.
La reazione della redazione web del Gazzettino è stata tempestiva e corretta, non censoria, ma neppure passiva. Altri lettori sono insorti, ma il tono complessivo della discussione è a dir poco indecente. Questo tipo di reazione mi convince del fatto che siamo entrati in una fase di nuova e più grave intolleranza generalizzata. Persone che prima per quieto vivere pensavano (male) ma tacevano, ora scrivono (male) e non tacciono. E’ un fenomeno, forse, mutuato dalla litigiosità politica. Il modello del “politicamente corretto” è definitivamente saltato. Poco male se questo contribuisse a discutere con franchezza arrivando magari a modificare il pensiero iniziale. No, qui si assiste (e non solo in questo caso) a sparate ciniche e dure, sprezzanti, senza alcuna intenzione di dialogare.
Occorre dunque una riflessione forte, circa le modalità della comunicazione dei diritti delle persone con disabilità, senza mai dare per scontato che almeno i fondamentali della civile convivenza siano condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Occorre ricominciare da capo. Base per altezza. Le tabelline. Le aste. Ci vorrebbe il maestro Manzi, ma siamo sicuri che “non è mai troppo tardi”?
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