Cultura

G8. Il Cardinale Piovanelli: “Caro Dalai Lama, la violenza no”

In un’intervista esclusiva il cardinale torna a parlare di G8

di Giampaolo Cerri

Aveva garbatamente detto no a molte richieste di intervista, ma per la ?specialità? di un giornale come Vita ha accettato di tornare a parlare di G8. Il cardinal Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze (ha lasciato per limiti d?età alla fine di maggio), aveva stupito molti, nei giorni scorsi, affidando alle colonne del Corriere una riflessione sulla protesta contro il vertice genovese. Un intervento in cui, respinta a priori ogni idea di violenza, si ricordavano le molte ragioni di chi vuole manifestare. Così questo cardinale mite è diventato – più di ogni altro leader politico o intellettuale – il simbolo di chi non si rassegna a che il futuro del mondo sia affare di pochi. Clergy scuro, sorriso luminoso, Piovanelli ci riceve nell?istituzione ecclesiastica che lo ospita, sulle colline a Sud ovest di Firenze. La conversazione si svolge sotto uno dei grandi alberi del giardino. Unico rumore di sottofondo, le cicale scatenate dal torrido sole di giugno. Vita: Eminenza, lei è stato un vescovo che ha sempre amato le missioni. È da qui che nasce questo sguardo sul Sud del mondo e sui suoi problemi? Silvano Piovanelli: Credo che una delle cose più importanti che il nostro mondo dovrebbe fare è aprirsi a queste realtà: vederle con gli occhi, toccarle con le mani. È vero che molti di quelli che hanno soldi in questi posti ci vanno, ma lo fanno da turisti, stanno negli alberghi: vedono le cose con un altro occhio, sempre a distanza. In questi luoghi bisognerebbe invece sempre prendere contatto con la realtà. Per grazia di Dio l?ho potuto fare e mi sono accorto di quanto sia ingiusto questo mondo: quelli che hanno tanto, anche il superfluo, e quelli che non hanno neppure il minimo indispensabile. Eppure basterebbe l?interpretazione più larga a quella parola di Gesù che dice: ?Date il superfluo?. Se dessimo il superfluo quei popoli starebbero meglio, ma sappiamo che l?interpretazione autentica di quella frase è dare quello che abbiamo nel piatto, cioè condividere quello che abbiamo. Ricordo l?impressione di una volta, ritornando nel Venezuela. Fu un contraccolpo forte sedersi a tavola: mi sembrava di non poter mangiare, dopo le cose che avevo visto. Se potessimo vedere di più questo mondo, che è il terzo, il quarto, il quinto? allora cambieremmo atteggiamento. Vita: Ci sono episodi, momenti, volti che hanno determinato il suo modo di rapportarsi a questi problemi? Piovanelli: Ricordo una volta a Salvador Bahia in Brasile, visitavo una scuola materna. Su una parete ho visto dipinto un bambino occidentale, con tanto di camicia, cravatta, scarpe lucide. Accanto, era raffigurato un menino brasiliano con le sole braghette che diceva. «Infelice te bambino, figlio dei ricchi, che devi sempre star vestito con la giacca, mentre io posso giocare libero sulla spiaggia». Quel mondo che è al limite della sussistenza spesso è più gioioso del nostro, che pure è ricco di tanti beni, beni che spesso ci soffocano. Lì mi fu chiarissimo. Un?altra volta nello slum di Dacca, in Bangladesh. Un ometto secchissimo, con un piattino e due pesciolini che evidentemente costituivano il suo pranzo, rispose al missionario che gli aveva chiesto come andasse: «Allah che ci vuole bene». Anche qui, in fondo, lo stesso messaggio: l?essere prima che l?avere. Con questo non voglio dire che non si debba curare anche l?avere, anzi. La battaglia, l?insistenza su certi temi è perché l?avere sia condiviso. Ma se è solo se diviso, l?avere diventa motivo di serenità e anche di gioia. Vita: Anche ambienti ?lontani? dal cattolicesimo, la Chiesa sorprende per come sia oggi chiaramente sensibile al tema della giustizia dei popoli. Quasi ci fosse stato, negli anni, uno spostamento verso questi aspetti, mentre in passato c?era una maggiore sottolineatura della libertà. Piovanelli: Sono temi collegati, credo che ?tutto si tiene? quando si toccano le cose essenziali dell?uomo: la libertà, il pane, l?istruzione, la fatica, il poter disporre liberamente della propria vita, il potersi muovere sul pianeta. Sono questioni che formano un tutt?uno nella dignità e nel valore dell?uomo. Evidentemente vengono affrontati a seconda che siano più o meno offesi, trovino più o meno difficoltà nell?essere promossi. Vita: L?enciclica Sollecitudo Rei socialis di Giovanni Paolo II venne accolta con una certa sufficienza negli anni ?80: come se il Papa avesse voluto dettare una impossibile terza via fra economia collettiva e mercato. Negli anni 2000 questo messaggio sembra quasi profetico, mentre si allarga il fronte di quanti credono che il mercato non ci possa salvare… Piovanelli: Ah, che il mercato non ci possa salvare è chiaro! Ritorno all?avere e l?essere. Al primo posto bisogna mettere l?essere, l?esistere con tutta la sua dignità, con tutti i suoi diritti, con tutta la sua bellezza umana. L?uomo è bello quando può godere pienamente dei propri diritti, può essere se stesso, l?essere. L?avere è relativo all?essere: ti serve, ma ti serve solo se ti fa essere. Al momento in cui questo diventa per il tuo essere un gravame, una cappa, un velo a quelli che sono i valori più importanti, o al momento in cui, non partecipando ad altri, viene ad essere motivo di egoismo nella tua vita, allora l?avere non vale più. L?uomo vale per quello che è, non per quello che ha: dobbiamo ripeterlo mille e mille volte. C?è una cosa bellissima scritta da Dacia Maraini nel suo libro sul Tibet. Era rimasta colpita dalla letizia dei monaci, per cui scriveva che la felicità non è in quello che si ha ma nel rapporto fra noi e le cose. Ed è così: posso trovare un povero felice e un ricco estremamente infelice, anzi annoiato della vita. Noi che viviamo in questa parte di mondo abbastanza sazia, lo possiamo vedere ogni giorno. Vita: Nel suo articolo, lei ricorda Paolo VI che, nella Popolorum progressio, profetizzava un ?umanesimo plenario?. Come possono i cristiani partecipare a questa costruzione senza, come qualcuno teme, fare sconti su quello che sono? Piovanelli: Con la profezia, innanzitutto. Una profezia che usa la parola e non le mani, nel senso di violenza. A questo proposito non mi trovo d?accordo con il Dalai Lama che, ultimamente, scriveva: «Un po? di violenza, quando gli altri non capiscono, fa bene». Mi chiedo dove si possa fermarci percorrendo una simile strada. La stessa da sempre percorsa dai regimi totalitari, che impongono con la forza quello che ritengono essere giusto e buono per l?uomo. I cristiani quindi non usa le mani per la violenza ma la lingua per proclamare i diritti di tutti. I cristiani inoltre sono chiamati ad una coerenza di vita personale: a vivere quello che proclama, nel primo come nel terzo mondo. Loro compito, infine, è adoperare le mani non contro gli altri, ma per collaborare con gli altri. I cristiani possono indicare alcuni capitoli su cui riflettere per agire: come la remissione del debito estero, i farmaci per gli ammalati di Aids in Africa, la lotta alla disoccupazione, un mercato che non sia iugulatorio per le popolazioni del Sud, la lotta contro il commercio delle armi. C?è da augurarsi che in Italia ci sia questa fierezza: dare al G8 un volto nuovo, perlomeno indicare a questi capi di Stato, una strada nuova su cui camminare. Vita: A proposito di auguri, quale rivolgerebbe alle associazioni cattoliche che si riuniranno il 7 luglio prossimo a Genova? Piovanelli: Quello che il Papa fece l?agosto scorso ai giovani accorsi da tutto il mondo per la Giornata mondiale della gioventù: siate le sentinelle del mattino. In questa tenebra che viviamo – perché non siamo ancora nel giorno, il mattino deve essere ancora anticipato, profetizzato – siate voi le sentinelle del mattino. Le associazioni cattoliche, per il fatto che si rifanno a ciò che è sempre giovane, il messaggio del Vangelo e che viene del futuro, perché ci dice già quello che dobbiamo essere, hanno questo grande compito: una profezia di speranza. E non solo per gli uomini che credono a Gesù Cristo e che hanno il Vangelo come regola della vita, ma per tutti gli uomini della terra.


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