L’Africa è un mondo a parte, anni luce distante dal nostro immaginario. In questi giorni lo sto ripetendo a destra e a manca, a voce alta, pensando soprattutto al vertice del G8 che si sta aprendo a L’Aquila. Come al solito i Vip della politica internazionale saliranno in passerella e verranno profusi lunghi discorsi sulle disgrazie altrui, largite le solite promesse e poi chissà forse si riuscirà a fare qualcosa. Ma ciò che davvero conta è innescare un cambiamento culturale nelle nostre testoline: lo dico soprattutto a coloro che vorrebbero sbarcare nel continente per fare affari, investimenti nel nome del libero mercato. E sì perché noi occidentali siamo istintivamente portati a sentirci i primi della classe, e troppe volte già nel passato abbiamo avuto l’ardire di giudicare impietosamente l’Africa, quasi dovessimo sempre fare i conti con una specie di discolo, reticente ad ogni forma d’apprendimento. Ecco che allora nella gerarchia dei saperi, l’Africa viene ancora oggi redarguita per le sue barbarie quasi fosse irriducibilmente bocciata dalla Storia delle grandi civilizzazioni. Eppure, come ricorda sensatamente il grande storico Basil Davidson, queste idee costituiscono un serio pregiudizio che non giova alla causa del bene condiviso, ma semmai acuiscono il fraintendimento per cui si ha la presunzione di elaborare una conoscenza dell’altro che pregiudica l’incontro. A questo proposito sovviene un curioso aneddoto raccontato dallo stesso Davidson riguardante un etnografo tedesco e viaggiatore di nome Leo Frobenius. Questo distinto signore nel 1910 si trovava in Nigeria ed ebbe la fortuna di scoprire delle statuette di terracotta di rara bellezza e fattura. Frobenius non volle ammettere che quelle sculture fossero opera di artigiani dell’etnia youruba e s’inventò di sana pianta una teoria secondo cui i greci avrebbero colonizzato prima di Cristo le coste dell’Africa Occidentale, lasciando ai posteri quei volti umani che le popolazioni autoctone non avrebbero mai potuto concepire. Si tratta dunque di andare decisamente al di là di certa mentalità coloniale quasi l’uomo bianco avesse bisogno d’inventare l’Africa con le sue affermazioni narcisistiche fondate sulla presunta superiorità. Per carità, tra guerre, ingiustizie e sopraffazioni, questo continente sembra costituire la permanente metafora dei mali del mondo. Ma impariamo a distinguere tra le effettive necessità di solidarietà fattiva e la povertà intesa nell’accezione corrente. L’esperienza maturata sul campo da tanti missionari e volontari indica in fondo che l’Africa ha la sua dignità e che soprattutto non è povera: semmai impoverita. D’altronde il benessere non si misura esclusivamente in termini di prodotto interno lordo o di redditività. Insomma nella generale mercificazione delle cose imposto dal pensiero forte mercantile, tanto caro a “piazza affari”, l’Africa è stata capace di resistere all’annientamento culturale dei secoli della conquista e dell’attuale stagione postcoloniale. Sono decenni che certe Cassandreannunciano la morte del continente senza vederne però sfilare il cadavere. Certo, sono tanti i paesi africani che vivono le loro contraddizioni, ma sprigionano sempre e comunque, attraverso la loro gente, una portentosa voglia di vivere. Può essere utile pertanto, in questi giorni in cui l’Africa è sempre più alla ribalta in occasione del G8, provare a realizzare col cuore e con la mente una sorta di decentramento narrativo con l’intento di guardare la realtà, una volta tanto, dalla parte dell’altro. Un rovesciamento salutare, se vogliamo approdare, noi e loro, con piena consapevolezza all’appuntamento del dare e del ricevere auspicato dal poeta senegalese Léopold Sédar Senghor.
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