Fuori radar. Dubbi sulla vulgata dell’innovazione.

di Noemi Satta

Leggendo l’interessante articolo su PianoC  pubblicato su Nova del Sole24ore di qualche settimana fa, i miei dubbi sulla (fin troppo facile e semplicistica) equazione innovazione=digitale/tecnologia/app si rafforzano. PianoC, per chi non lo conoscesse, è un particolare coworking, un luogo che cura i bimbi insieme ai genitori, che assicura servizi complementari di gestione di piccole commissioni, che permette di gestire al meglio il rapporto tra famiglia e lavoro, che in sostanza ridefinisce la dimensione del lavoro in relazione al benessere e alla qualità del tempo che dedichiamo alla nostra vita. I riconoscimenti non mancano, compreso la Banca di Investimento Europea che ha riconosciuto PianoC come migliore Innovazione sociale, ma secondo i criteri impostati nell’Agenda Digitale Italiana, PianoC non potrebbe entrare nel registro delle imprese innovative.

Come riconoscere e valorizzare quell’innovazione (sociale) che non passa (esclusivamente) dalle nuove tecnologie?

E torna di nuovo un dubbio: e se l’innovazione si generasse anche dalla cura delle cose semplici, almeno in apparenza, come i tempi, la gestione di questi, la creazione di comunità reali, la costruzione di progetti di qualità.

E lo dico pensando al settore culturale, pensando all’arte, pensando alle produzioni più interessanti dell’ambito editoriale. Tra queste cito, in disordine, un magazine che è un progetto e un colletivo di ricerca intorno al linguaggio grafico come Nurant; molte altre piccole case editoriali dedicate alla ricerca artistica; librerie specializzate che valorizzano quartieri periferici; Timbuktu, straordinaria e affermata esperienza di start up innovativa nell’ambito dell’editoria digitale per bambini e adoloscenti (che piace poi a quanti seguono con vivo interesse quella produzione culturale caratterizzata da ricerca nell’illustrazione e nella narrazione), che alla base sembra avere il vecchio e caro lavoro autoriale e di cura editoriale.

Penso alle istituzioni e ai musei più vivi (si distinguono per la ricerca e la qualità dell’allestimento espositivo, per le cose semplici  come le luci giuste messe al posto giusto, o il personale preparato e professionale); penso ai temi di ricerca artistica (non per forza la scoperta di un nuovo -vero o finto- Caravaggio o Leonardo, ma gli incroci tra cibo arte e design come al Mart, ancora inconsueti per le nostre istituzioni, o per esempio tra architettura, ingegneria e arte, utopia e sostenibilità, propri della installazione di Saraceno all’Hangar Bicocca che ha avuto un incredibile successo di pubblico).

Penso alla qualità dei servizi che permettono di vivere semplicemente una bella esperienza (e se si trattasse di migliorare il senso di accoglienza, la chiarezza, la presenza di gioia in un museo  e semplicemente la conoscenza e la coesione intorno a un museo, a un parco archeologico, al patrimonio materiale e immateriale) o alla capacità di un territorio (istituzioni, operatori e cittadini) di raccontarsi, di generare storie nuove, di trasmettere interesse e passione verso i propri luoghi.

Se per fare innovazione si trattasse di coinvolgere, di curare la partecipazione. Di attivare processi di governo coordinati e strategici. Di ricercare solo l’alta qualità. Di finanziare, dare respiro, e permettere di accompagnare questi processi?

 

 


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