Non profit

Fuori Amato e D’Alema Siena trionfa immortale?

Il sindaco della città toscana (Ds) rifiuta le indicazioni del Governo, esclude il Tesoro dalla Fondazione e si prepara a entrarci come presidente.

di Walter Mariotti

«S’è sempre comandato e sempre si comanda». Con lo spirito del refrain della contrada di Santa Caterina, la Fondazione Monte dei Paschi sembra aver deciso il nuovo statuto, sbattendo i rappresentanti del Tesoro extramoenia e stendendo il tappeto rosso ai due nuovi eletti degli Enti locali. La deputazione amministratrice sale così a cinque membri nominati dal Comune (tra cui uno su indicazione dell’Università), quattro dalla Provincia (di cui uno suggerito dalla Camera di Commercio) e uno dalla Regione. È la quadratura del cerchio, l’applicazione tutta bianconera della legge Ciampi-Pinza: l’ancoraggio della Fondazione al territorio realizzato riconsegnando totalmente nelle mani dei politici senesi quel tesoro che la legge Amato sembrava avergli scippato. Diciottomila miliardi, lira più lira meno.
Siena trionfa immortale, dunque. Nessuno del resto ne aveva mai dubitato, anche perché nella città della Vergine – dove “Babbo Monte” riunisce da sempre ciò che il Palio da sempre divide – tutto è possibile. Per esempio è possibile che un sindaco progressista, il luciferino Pierluigi Piccini, divenga l’alfiere vittorioso della “senesità del Monte”, storica bandiera dei conservatori e degli autonomisti. O che lo stesso sindaco diessino, eletto secondo prassi con percentuali bulgare, respinga stizzito il diktat del primo ministro diessino, far acquistare a condizioni favolose la Banca Nazionale del Lavoro dal Monte dei Paschi. O addirittura che il medesimo primo cittadino riesca a portare dalla sua ben cinque consiglieri comunali di Forza Italia e di An, facendo così approvare dalla Fondazione una clausoletta che gli assicurerà a fine mandato il vertice della Fondazione stessa. Sbattendosene dunque dell’incompatibilità tra incarico d’indirizzo e di gestione denunciato – con stile diverso – dal curioso ministro Giuliano Amato e dal gentiluomo d’altri tempi Giovanni Grottanelli de’ Santi, che presiede la Fondazione.
Sbaglierebbe comunque chi volesse riconoscere in queste manfrine esclusivamente le stimmate dell’intrigo politico, la versione aggiornata e politicamente corretta della classica dietrologia comunista: l’apparato di sezione insomma che si aggroviglia e si alimenta alle risorse della comunità. Non perché queste non ci siano: ci sono eccome, una lunga serie che comincia dalla pubblicazione di una lista di masso-comunisti, guarda caso tutti nemici di Piccini. Piuttosto, perché il Babbo dei senesi è veramente una banca diversa, protagonista di una vicenda incredibile che la lega indissolubilmente al destino della città dove nacque nel 1472 “per voto concorde e a Dio acepto della Magistratura e del popolo senesi onde avessero fecondo sviluppo, ordinamento e regola, con privato e pubblico vantaggio per la città e Stato di Siena le forme di attività creditizia”.
All’inizio il “Monte Pio di Siena” esercitò soltanto credito su pegno utilizzando fondi di diversa provenienza – dalla “gabella sul vino e sui terratici” ai “proventi del sale”, dai fiorini dello Spedale di Santa Maria della Scala” a quelli dell’Opera del Duomo – ma il successo fu tale che già nel 1481 “i reggitori del Monte” commissionavano al famoso pittore Benvenuto di Giovanni del Guasta un affresco celebrativo, la Madonna della Misericordia, in cui la cittadinanza senese è protetta sotto il mantello della Vergine a simboleggiare la concezione religioso-umanitaria che aveva animato il laicissimo istituto. Che si allontanò comunque prestissimo dal credito pignoratizio verso operazioni tipicamente bancarie. Il Monte cominciò infatti ad accordare prestiti all’Università e ad alcune imprese fin dal 1574, sebbene la forma più caratteristica si manifestasse nelle “prestanze” agli allevatori di bestiame delle Maremme, attraverso le quali fu data vita ad autentiche operazioni di credito agrario un secolo prima della fondazione della Banca d’Inghilterra.
L‘ulteriore successo spinse la “deputazione” che amministrava il Monte – “di concerto colla Balìa di Siena” ovvero con il principale governo locale – a presentare ripetuta istanza di “prestare denaro su cedole” al potere centrale, che non l’accettò finché le condizioni dell’economia senese non si aggravarono. Soltanto il 2 novembre 1624 infatti il Granduca Ferdinando II di Lorena, regnante in Toscana sotto la tutela della madre Maria Maddalena d’Austria e dell’ava Cristina di Lorena, l’accolse: chiedendo però a sua volta delle garanzie che il Monte non possedeva. Nella sua magnanimità comunque il Granduca concesse quella dello Stato, vincolando le rendite dei pascoli demaniali della Maremma, i cosiddetti “Paschi” da cui la banca trasse la sua successiva denominazione. Ma Ferdinando impose una condizione, che qualora queste garanzie fossero risultate insufficienti si sarebbero dovuti ritenere obbligati a onorare “le persone e tutti i singoli, i beni mobili e immobili, diritti ed azioni, presenti o avvenire, nonché retrospettivi frutti di tutti singoli contadi e gli abitanti della Città e di chiunque altri di diritto e di fatto potessero in nome essere obbligati”.
È sulla base di questa garanzia personale – la famigerata e gloriosa “capitolazione” – che i senesi hard e soft reclamano la differenza del Monte da tutte le altre banche del mondo, nonché la loro comproprietà dell’Istituto, che li accomuna al di là e al di qua di ogni schieramento politico. Sul fatto cioè che la Banca appartenga storicamente e legittimamente alla comunità cittadina, per via di un impegno individuale e collettivo secolare, un impegno mai abrogato che nessun’altra comunità ha dovuto sostenere. Un contratto firmato veramente con il sangue, l’unico inchiostro capace di conciliare gli opposti facendo insorgere tutti i senesi contro qualunque “sopruso di regime”.
Il regime infatti a Siena ha sempre avuto tanti nomi. Si è chiamato Carlo V, Bettino Ricasoli, Benito Mussolini, Giuliano Amato o Massimo D’Alema. Ma la città delle città – come l’ha chiamata il poeta – ha trovato e troverà sempre un Piccini disposto a difendere la sua fortuna. Sua di lei e sua di lui, naturalmente. •«S’è sempre comandato e sempre si comanda». Con lo spirito del refrain della contrada di Santa Caterina, la Fondazione Monte dei Paschi sembra aver deciso il nuovo statuto, sbattendo i rappresentanti del Tesoro extramoenia e stendendo il tappeto rosso ai due nuovi eletti degli Enti locali. La deputazione amministratrice sale così a cinque membri nominati dal Comune (tra cui uno su indicazione dell’Università), quattro dalla Provincia (di cui uno suggerito dalla Camera di Commercio) e uno dalla Regione. È la quadratura del cerchio, l’applicazione tutta bianconera della legge Ciampi-Pinza: l’ancoraggio della Fondazione al territorio realizzato riconsegnando totalmente nelle mani dei politici senesi quel tesoro che la legge Amato sembrava avergli scippato. Diciottomila miliardi, lira più lira meno.
Siena trionfa immortale, dunque. Nessuno del resto ne aveva mai dubitato, anche perché nella città della Vergine – dove “Babbo Monte” riunisce da sempre ciò che il Palio da sempre divide – tutto è possibile. Per esempio è possibile che un sindaco progressista, il luciferino Pierluigi Piccini, divenga l’alfiere vittorioso della “senesità del Monte”, storica bandiera dei conservatori e degli autonomisti. O che lo stesso sindaco diessino, eletto secondo prassi con percentuali bulgare, respinga stizzito il diktat del primo ministro diessino, far acquistare a condizioni favolose la Banca Nazionale del Lavoro dal Monte dei Paschi. O addirittura che il medesimo primo cittadino riesca a portare dalla sua ben cinque consiglieri comunali di Forza Italia e di An, facendo così approvare dalla Fondazione una clausoletta che gli assicurerà a fine mandato il vertice della Fondazione stessa. Sbattendosene dunque dell’incompatibilità tra incarico d’indirizzo e di gestione denunciato – con stile diverso – dal curioso ministro Giuliano Amato e dal gentiluomo d’altri tempi Giovanni Grottanelli de’ Santi, che presiede la Fondazione.
Sbaglierebbe comunque chi volesse riconoscere in queste manfrine esclusivamente le stimmate dell’intrigo politico, la versione aggiornata e politicamente corretta della classica dietrologia comunista: l’apparato di sezione insomma che si aggroviglia e si alimenta alle risorse della comunità. Non perché queste non ci siano: ci sono eccome, una lunga serie che comincia dalla pubblicazione di una lista di masso-comunisti, guarda caso tutti nemici di Piccini. Piuttosto, perché il Babbo dei senesi è veramente una banca diversa, protagonista di una vicenda incredibile che la lega indissolubilmente al destino della città dove nacque nel 1472 “per voto concorde e a Dio acepto della Magistratura e del popolo senesi onde avessero fecondo sviluppo, ordinamento e regola, con privato e pubblico vantaggio per la città e Stato di Siena le forme di attività creditizia”.
All’inizio il “Monte Pio di Siena” esercitò soltanto credito su pegno utilizzando fondi di diversa provenienza – dalla “gabella sul vino e sui terratici” ai “proventi del sale”, dai fiorini dello Spedale di Santa Maria della Scala” a quelli dell’Opera del Duomo – ma il successo fu tale che già nel 1481 “i reggitori del Monte” commissionavano al famoso pittore Benvenuto di Giovanni del Guasta un affresco celebrativo, la Madonna della Misericordia, in cui la cittadinanza senese è protetta sotto il mantello della Vergine a simboleggiare la concezione religioso-umanitaria che aveva animato il laicissimo istituto. Che si allontanò comunque prestissimo dal credito pignoratizio verso operazioni tipicamente bancarie. Il Monte cominciò infatti ad accordare prestiti all’Università e ad alcune imprese fin dal 1574, sebbene la forma più caratteristica si manifestasse nelle “prestanze” agli allevatori di bestiame delle Maremme, attraverso le quali fu data vita ad autentiche operazioni di credito agrario un secolo prima della fondazione della Banca d’Inghilterra.
L‘ulteriore successo spinse la “deputazione” che amministrava il Monte – “di concerto colla Balìa di Siena” ovvero con il principale governo locale – a presentare ripetuta istanza di “prestare denaro su cedole” al potere centrale, che non l’accettò finché le condizioni dell’economia senese non si aggravarono. Soltanto il 2 novembre 1624 infatti il Granduca Ferdinando II di Lorena, regnante in Toscana sotto la tutela della madre Maria Maddalena d’Austria e dell’ava Cristina di Lorena, l’accolse: chiedendo però a sua volta delle garanzie che il Monte non possedeva. Nella sua magnanimità comunque il Granduca concesse quella dello Stato, vincolando le rendite dei pascoli demaniali della Maremma, i cosiddetti “Paschi” da cui la banca trasse la sua successiva denominazione. Ma Ferdinando impose una condizione, che qualora queste garanzie fossero risultate insufficienti si sarebbero dovuti ritenere obbligati a onorare “le persone e tutti i singoli, i beni mobili e immobili, diritti ed azioni, presenti o avvenire, nonché retrospettivi frutti di tutti singoli contadi e gli abitanti della Città e di chiunque altri di diritto e di fatto potessero in nome essere obbligati”.
È sulla base di questa garanzia personale – la famigerata e gloriosa “capitolazione” – che i senesi hard e soft reclamano la differenza del Monte da tutte le altre banche del mondo, nonché la loro comproprietà dell’Istituto, che li accomuna al di là e al di qua di ogni schieramento politico. Sul fatto cioè che la Banca appartenga storicamente e legittimamente alla comunità cittadina, per via di un impegno individuale e collettivo secolare, un impegno mai abrogato che nessun’altra comunità ha dovuto sostenere. Un contratto firmato veramente con il sangue, l’unico inchiostro capace di conciliare gli opposti facendo insorgere tutti i senesi contro qualunque “sopruso di regime”.
Il regime infatti a Siena ha sempre avuto tanti nomi. Si è chiamato Carlo V, Bettino Ricasoli, Benito Mussolini, Giuliano Amato o Massimo D’Alema. Ma la città delle città – come l’ha chiamata il poeta – ha trovato e troverà sempre un Piccini disposto a difendere la sua fortuna. Sua di lei e sua di lui, naturalmente. •

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