Bisogna davvero vederlo Fuocoammare, il film italiano che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino. Bisogna vederlo perché permette di capire l’immigrazione senza filtri interposti. Gianfranco Rosi non ha fatto un film a tesi. Ha fatto un film che ha l’oggettività ineccepibile di un documentario e la poesia struggente di una storia piena di umanità, di dolore e di speranze. Partiamo dall’aspetto documentaristico. Rosi ha fatto le cose molto sul serio. Ha chiesto il permesso di imbarcarsi su di una nave della Marina Italiana, operativa innanzi alle coste africane, la Cigala Fulgosi, ed è stato a bordo circa un mese partecipando a due missioni di soccorso di migranti in mare. Come lui stesso ha spiegato, «ho condiviso anche lì altri tempi, ritmi, regole e costumi fino a quando abbiamo incontrato la tragedia, una dopo l’altra». Ed è in quelle situazioni che ha acceso la cinepresa, facendoci vedere dal vero quello che fin’ora abbiamo solo sentito mille volte rievocare in decine di racconti, tutti tristemente simili l’uno all’altro. Racconti fatti di contabilità più che di volti, di corpi o di sguardi. Con Fuocammare invece le mediazioni narrative saltano. Siamo davanti ad una presa diretta che scardina ogni opinione, buona o cattiva, con la quale siamo entrati nella sala cinematografica. Perché la realtà è qualcosa di molto più forte e più profonda delle opinioni. Il film svela tante cose. Innanzitutto la brutalità inimmaginabile delle condizioni di quei viaggi sul mare. Una brutalità inimmaginabile che ci costringe ad un’altra domanda: quale ragione così radicale, quale disperazione così profonda convince un uomo o una donna che è meglio affrontare un’esperienza del genere piuttosto che continuare a vivere nella situazione da cui sono scappati? Quale inferno è oggi ad esempio l’Eritrea, paese da cui gran parte dei profughi dei due salvataggi filmati da Rosi provenivano? Nei loro volti non si legge lo spavento per quello che stanno vivendo – esperienza che sarebbe terrorizzante per qualsiasi persona normale – perché il peggio è comunque quello che hanno vissuto. Fuocoammare fa capire che oggi questa è un immenso popolo senza alternative. E che quindi non c’è tecnica di respingimento che tenga. Ma sentirlo dire è un conto; vedere invece questa drastica impossibilità di scegliere su quei volti e in quegli sguardi è un’altra cosa. Perché davanti a quei volti e quegli sguardi ogni dibattito si ammutolisce.
Il film di Rosi ci racconta poi un’altra storia di cui non abbiamo mai avuto esatta percezione. Ed è la storia di quelle decine e decine di uomini che si sono spesi in tutti questi anni in soccorsi rischiosi e pesantissimi dal punto di vista sia fisico che emotivo. Fa specie pensare che tutti quegli uomini che vediamo sul ponte della nave della Marina, vestiti con tute bianche; quegli uomini che contano vivi e morti, che aiutano, consolano, curano; che issano a bordo donne e bambini; che con delicatezza molto umana tirano su anche chi non ce l’ha fatta; ebbene, fa specie pensare che tutti quegli uomini siano nostri militari. Nei loro gesti si scorge uno spirito di solidarietà istintiva, che ancora una volta fa saltare ogni prevalenza dell’opinione, in loro e in noi. Quegli uomini bianchi sono uno spettacolo imprevisto di gratuità e di dedizione: simbolo di civiltà, da rivendicare e di cui andare orgogliosi.
In cima a tutti questi uomini c’è il dottore, Pietro Bartolo, direttore dell’Asl di Lampedusa da 30 anni. È stato lui che ha chiesto a Rosi di fare questo film, perché tutti finalmente potessero sapere di cosa è stato testimone in tutti questi anni. Il dottor Bartolo non è un eroe. È solo un semplice e bravo dottore che non fa differenze tra i pazienti che si trova a dover assistere. Un dottore che vediamo commuoversi, nel suo piccolo ambulatorio isolano, mentre fa l’ecografia a una donna appena sbarcata e così scopre che nel grembo ha due gemelli. Un dottore che si commuove davanti ad ogni vittoria della vita, qualunque vita sia.
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