Non profit
Fundraising, la buona chance
Professionisti del non profit/ Intervista a Ben Goldhirsh, 26 anni, che si è inventato un Magazine sul "Buono che c'è nella società". Trasformando i lettori in filantropi
Il modo migliore per lanciare un magazine destinato a un pubblico impegnato tra i 18 e i 35 anni? Trasformare i suoi potenziali lettori in filantropi. Ben Goldhirsh, ventiseienne direttore ed editore di Good Magazine, bimensile appena lanciato negli Usa e dedicato al buono che c?è nella nostra società, ci ha provato con successo nel mese di settembre. Con un business plan che invece di un budget per spese di promozione prevedeva una raccolta fondi: di 20 dollari, per ciascun abbonato, da destinare a una rosa di 12 charity scelte come partner del giornale. Goldhirsh – che finora ha finanziato il magazine unicamente di tasca sua grazie a un?eredità di 200 milioni di dollari ricevuti dal padre a patto che li usasse in modo socialmente responsabile – sperava che i lettori- donatori avrebbero promosso un?ampia circolazione del giornale. E infatti: «In un mese, al magazine si sono abbonate 8mila persone e 60mila l?hanno invece acquistato nelle edicole di New York, Seattle, Boston, Washington e di altre grandi città americane ». Una parte della stampa statunitense ha gridato al capolavoro di fundraising, l?altra al capolavoro di public relations di un ragazzino ricco con potenziali lettori ricchi. Come a dire: dietro ai soli venti dollari donati per l?abbonamento, c?è una platea di giovani con disponibilità notevoli.
Studium: Ben, ma come stanno le cose? È vero che i giovani donatori che è riuscito a stanare appartengono tutti a un?élite ricca?
Ben Goldhirsh: No. La maggior parte dei nostri lettori ha un salario normale, alcuni stanno ancora ripianando i debiti contratti con l?università. Molti hanno appena iniziato una carriera ma, certamente, hanno grandi potenzialità di diventare ricchi in futuro. Ciò che li contraddistingue, comunque, è soprattutto la voglia di cambiare attivamente il mondo e di non subirlo. Di cambiarlo dall?interno, con un pragmatismo che ha fiducia nel sistema capitalistico e che non considera le aziende come mostri.
Studium: Crede che i suoi lettori saranno i nuovi Bill Gates?
Ben Goldhirsh: Il filantropo che ammiro di più, e a cui mi ispiro, è Pierre Omidyar, il fondatore di eBay, che ha detto: «La maggior parte delle persone che ha avuto successo nel mondo del business arriva a un certo punto della carriera in cui si dice che è giunto il momento di dare qualcosa indietro alla società. Ma fino a quel momento cosa ha fatto, solo prendere?». Il mondo della filantropia sta cambiando, con nuovi patrimoni, nuovi criteri di efficienza e nuovi, sempre più giovani, protagonisti.
Studium: È ai giovani filantropi che si rivolge il suo giornale?
Goldhirsh: Non solo. Il nostro motto è «The world of good not just for do gooders any more», e significa che il bene non è più un?esclusiva di filantropi e operatori sociali. Anzi. Chiunque di noi può allineare il proprio interesse a un interesse più grande, e questo senza dover lasciare un lavoro in banca per passare a Greenpeace. Per questo motivo il nostro giornale tratta del bene che c?è nel non profit, ma anche di quello che emerge nella politica, nella cultura e nel business. Là fuori è pieno di giovani desiderosi di migliorare il mondo, io sono uno di questi e voglio celebrare questa nostra sensibilità raccontando il bene in maniera sexy, divertente e sfidante. Liberandolo dalla nicchia triste e sacrificante in cui oggi è relegato, un po? come Wired ha fatto con la tecnologia che era considerata roba da nerd e che oggi invece è materia di tutti.
Studium: Come pensa di riuscirci?
Goldhirsh: Puntando su contenuti di qualità e sull?estetica. La mia decisione di fondare un giornale è la risposta alla frustrazione di non trovare un?informazione di qualità per i giovani. Da un lato ci sono il New Yorker, l?Economist, l?Atlantic Monthly, dall?altro c?è il vuoto, si scivola giù fino a Maxime Cosmopolitan. Credo che in mezzo ci sia spazio per il nostro ingresso sul mercato.
Studium: Pensa che Good Magazine possa raggiungere la sostenibilità economica? E quando?
Goldhirsh: Secondo i miei calcoli, nel 2011. Fino ad allora continuerò a sostenerlo con il mio patrimonio personale – ad oggi ci ho investito 2 milioni di dollari – e con quello di altri finanziatori.
Studium: Considera questo impegno filantropia o, piuttosto, un investimento sociale?
Goldhirsh: Non sono né un filantropo né un imprenditore sociale. Piuttosto, una nuova specie di businessman
con un interesse personale che corrisponde a un interesse più grande. E non credo di essere l?unico. Come dicevo, l?idealismo degli anni 60 che snobbava il mondo delle corporate s?è trasformato in una voglia più concreta di cambiare il mondo dall?interno. C?è un?intera nuova generazione che ha fiducia nel business per cambiare le cose, lo dimostra l?entusiasmo dei nostri lettori e anche di un pubblico più giovane che non avevo immaginato: 14 e 15enni desiderosi di collaborare con noi. Se possibile, mi sono sembrati ancor più affamati di contenuti di qualità dei 20enni e dei 30enni.
Studium: Quanti dipendenti ha oggi il giornale?
Goldhirsh: Dodici, di cui il più vecchio ha 28 anni.
Studium: A scrivere gli articoli, però, sono soprattutto le firme dei giornali di qualità che citava prima. Dal New Yorker all?Economist.
Goldhirsh: Non scelgo i collaboratori in base alla loro fama: chi ha idee interessanti e la capacità di argomentarle, è il benvenuto. Paghiamo 2 dollari a parola contro i 4 dei grandi magazine e quotidiani.
Studium: A 26 anni, lei siede nel board dei Millennium Goal ed è considerato uno degli attivisti più ricchi del mondo. Porterà nuove idee ed energie nel mondo dell?impegno sociale?
Goldhirsh: Per ora non ho ricette da suggerire, lavoro 80 ore a settimana e cerco di imparare il più possibile. Credo che la filantropia, in particolare, stia vivendo una fase entusiasmante all?insegna della trasparenza e della responsabilità personale. Una responsabilità legata al fatto di essere uomini e, soprattutto, all?idea di mettere a frutto il proprio potenziale.
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