Non profit

fundraising e welfare un binomio inscindibile

di Massimo Coen Cagli

Si parla molto da qualche anno a questa parte di fundraising quale risposta alla gravissima crisi economica che colpisce in modo drammatico le famiglie italiane soprattutto in termini di minori servizi di qelfare e protezione sociale. Al taglio drastico della spesa pubblica per il settore del welfare (-75% in 5 anni) si aggiunge il carico che le famiglie devono assumersi autonomamente per far fronte ai tanti bisogni sociali, di salute, di educazione, di accesso alla cultura.

Ma il fundraising non è una bacchetta magica e nenache una panacea. Così come non è in grado “tout curt” di risolvere il problema della sostenibilità delle organizzazioni non profit, così non lo è per quanto riguarda il finanziamento della sanità, delle scuole, dei musei, delle politiche giovanili, dei servizi per garantire le pari opportunità delle donne e quant’altro.

Non basta dire – come fanno tanti amministratori in questi mesi – “abbiamo finito i soldi per….. aiutateci a mantenere in piedi il servizio, altrimenti siamo costretti a chiuderlo!” E non basta nemmeno minimizzare i “costi” del fundraising come si fa con tante campagne che dicono “a te costa poco, per loro vuol dire tanto…”. E nenache stressare i donatori con metodi che per alcuni vengono ritenuti un po’ troppo aggressivi.

La comunità ha bisogno di più buoni motivi per investire su quello che noi chiamiamo welfare e che è fatto non solo della protezione di più deboli – in italia o nel mondo – ma anche della creazione di uno stato di benessere sociale in cui l’individuo e la comunità possano svilupparsi e progredire.

In questa “empasse” ci viene in soccorso la storia del fundraising italiano che è sempre stato fortemente integrato con un processo di creazione e crescita di un welfare di comunità. Sono molte le storie di fundraising di comunià  che accompagnano l’impegno della società civile italiana a partire già dal basso medioevo. Si chiamano Misericordie d’Italia (gli inventori degli ospedali), opere pie (gli inventori della beneficenza collettiva), delle associazioni mutualistiche e creditizie (che hanno poi dato vita alle fondazioni bancarie dei giorni nostri), delle casse di resistenza degli operai, delle scuole e delle biblioteche popolari (che nascono in alcuni casi prima di quelle di stato), delle cooperative sociali (che sono una grnade invenzione italiana invdiata in tutto il mondo), dei grandi imprenditori illuminati del 900 come Olivetti, Pirelli e tantissimi altri che non sapevano disgiungere lo sviluppo economico da quello sociale della comunità. Sono storie di welfare di comunità e di fundraising che forse andrebbero riprese.

Anche perchè, a ben vedere, queste storie sono legate da un sottile “fil rouge” con un fundraising di comunità che si sta diffondendo a macchia d’olio alle radici dell’erba in questi giorni. I comitati di genitori, le associazioni amici della biblioteca, l’azionariato popolare per gestire gli asili, il crowdfunding come forma di larga partecipazione economica alla realizzazione di progetti anche di creazione di impresa (che sarebbe punto essenzale delle politiche giovanili). Dopo la sbornia delle sponsorizzazioni e della filantropia un po’ “glamour”, aziende e fondazioni si stanno avvicinando al mondo del welfare con una ottica di investimento sociale che forse è il migliore sviluppo che potevamo immaginare di quella che chiamiamo Responsabilità Sociale di Impresa, abbandonando il facile legame con il tema della “reputation” e del ritorno di immagine a favore di un impegno strategico di largo respiro.

Sono tutti segnali positivi. Ma sono anche segnali che il mondo del non profit e in particolare del fundraiisng forse deve rivedere il suo rapporto con la comunità, sia sotto il profilo delle modalitò di raccolta fondi ed ei messaggi promozionali (che poi è uno dei modi di comunicare il proprio ruolo), sia sotto il profilo della creazione di una nuova relazione con i donatori che non possono essere più (in questo contesto di scarsa ricchezza) dei generosi spettatori della solidarietà, ma dei veri e propri stakeholders se non adirittura shareholders delle nostre cause sociali.

Insomma non un individuo sensibile che dona per sostituire il proprio impegno personale, ma al contrario, un individuo che attraverso la donazione intende mettere in atto un disegno di azione sociale e collettiva per cambiare il mondo. Ma per fare questo ci vuole un soggetto quale il non profit che da questo punto di vista è ancora troppo un mero insieme di organizzioni e ancora poco un “sistema” sociale.

Se come non profit vogliamo assumerci la sfida di ricostruire il nostro welfare (e non solo di turare le sue falle come è stato fatto fino ad oggi) forse dobbiamo assumerci anche la sfida di proporre ai nostri donatori (aziende, fondazioni, individui) un patto di azione comune per cambiare insieme il mondo, trovando le risorse necessarie, e dando vita  ad una governance sociale del welfare.

Il tema è di grande portata e non può essere risolto con un post. E neanche trovando facili slogan e regole semplificative. Si tratta di un itinerario di riflessione e di sperimentazione che con la Scuola di Roma fund-raising.it abbbiamo voluto avviare realizzando una conferenza a più voci. Un pensatoio, insomma, che abbiamo voluto chiamare “Fundraising. Un altro welfare è possibile” e che si svolge a Roma il 7 giugno dove convocare il non profit (ci sono le confederazioni delle cooperative sociali, il Forum del III settore), i fundraiser (ci sono molti amici dell’Assif)  e gli interlocutori del fundraising (ci sono Bonacina, Morganti, Torcia, Livia) per cercare, insieme, di uscire da questa empasse.

Per chi non potesse esserci la conferenza può essere seguita in streaming o su twitter con l’ashtag #FRwelfare.

Sicuramente renderemo pubblici sui nostri siti www.scuolafundraising.it e www.blogfundraising.it gli spunti e le riflessioni che emergeranno da questo confronto

 

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