Raccolta fondi

Fundraising e influencer, chi ci guadagna?

Malafede o errore? Nella vicenda del pandoro pink di Balocco e Ferragni, l'esperto di fundraising Valerio Melandri vede soprattutto l'errore, che non sarebbe mai accaduto se fosse stata coinvolta un'organizzazione non profit. Le lezioni sono due. Primo, «la disintermediazione costa cara». Secondo, «è finito il tempo per cui un testimonial vip va bene in quanto vip»

di Sara De Carli

Il pandoro che ha fatto il buono è diventato un boomerang. Magari l’onda sarà breve, in un paese che si scorda tutto velocemente, magari invece no: lascerà il segno e servirà da lezione. Su Instagram Chiara Ferragni per ora tace. Nei commenti, tanti la accusano di aver voluto guadagnare ingannando i consumatori, cioè facendo credere che con l’acquisto dell’ormai celebre pandoro pink avrebbero fatto essi stessi una donazione per i bambini malati di tumore. Valerio Melandri – direttore del Master in Fundraising dell’Università di Bologna-Forlì e fondatore del Festival del Fundraising – un po’ fuori dal coro non va all’attacco dell’influencer.

Quello su cui riporta l’attenzione è l’errore grosso e grossolano: una donazione una tantum, comunicata e promossa come un’azione di cause related marketing. Qualcosa che non sarebbe mai accaduto se ci fosse stato di mezzo un’organizzazione non profit e un fundraiser. L’errore quindi per lui è il credere che la disintermediazione sia un upgrade della raccolta fondi in termini di efficienza ed efficacia, mentre in realtà è un boomerang. 

Che sorpresa, Melandri: un fundraiser che oggi non spara a zero sulla Ferragni?

È evidente che lo sbaglio c’è stato ed è pure grosso e grossolano, ma non mi pare esserci cattiva fede. Francamente vedrei forse una responsabilità maggiore sul lato azienda. Chiara Ferragni ha sbagliato e pagherà come è giusto che sia, ma il passato suo e di Fedez racconta di un impegno civile evidente e forte, non mi danno l’idea di due che vogliono lucrare sulla buona fede della gente. Loro due hanno fatto tanto e in modo nuovo per il fundraising, è inutile negarlo: quella che hanno lanciato per il San Raffaele durante il Covid resta la più grande raccolta fondi online della nostra storia.

“Effetto Ferragnez”, l’intvento di Valerio Melandri all’ultimo Festival del Fundraising

L’errore allora qual è?

È l’idea che “se dai i soldi direttamente fai prima e doni di più”. È quello di un’azienda che vuole fare l’attivista, senza averne le competenze, accordandosi direttamente con una influencer. Se in mezzo, fra l’azienda e la Ferragni, ci fosse stata una organizzazione non profit o un fundraiser, questo sbaglio non sarebbe mai esistito: mai, è impossibile. Il problema è la corsa alla disintermediazione, per cui ognuno può farsi le sue raccolte fondi senza passare dai professionisti del non profit. Quello di oggi è il perfetto esempio di quanto siano grandi i danni che possono derivare da questo approccio. 

Le organizzazioni non profit e i fundraiser non sono come il grossista, un costo in più. Sono una competenza in più. I professionisti servono. Anche perché con la disintermediazione uno rischia di farsi male sul serio

Valerio Melandri, fondatore del Festival del fundraising

Il messaggio che dobbiamo portare a casa quindi qual è?

È quello di un alert nel rapporto tra profit e non profit. Un dire che le organizzazioni non profit non sono qualcosa che sta in mezzo come il grossista sta in mezzo tra il produttore e il consumatore, non sono qualcosa che fa aumentare i costi finali perché deve tirar fuori il proprio stipendio. Le organizzazioni – e i fundraiser – non sono un costo in più, ma una competenza in più. Ed è proprio questa competenza in più che ti permette di sviluppare al meglio le partnership. I professionisti servono, diciamolo forte. Anche perché con la disintermediazione uno rischia di farsi male sul serio.


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Per le organizzazioni non profit invece la lezione non potrebbe essere quella di fermarsi in questa corsa all’influencer? A volte il testimonial vip sembra essenziale ma poi si rivela poco coerente con l’organizzazione e magari non porta nemmeno tutto quel ritorno che si immagina in termini di donazioni…

No, io sono molto a favore al coinvolgimento di testimonial nel fundraising: però il testimonial deve avere una piena implicazione con il sociale. Al Festival del Fundraising 2024 abbiamo previsto una sessione dedicata a “Usi e abusi degli sportivi famosi nelle organizzazioni non profit”, che terrà Luca Palmas. Il senso sarà quello di capire come progettare e poi gestire una proposta efficace di accompagnamento filantropico per gli atleti professionisti, in una soluzione win win, aumentando reciprocamente i potenziali mercati. Diciamo che è finito il tempo per cui il testimonial vip andava bene in quanto vip, per cui il “chi è” diventa quasi secondario, basta che ci sia. Non funziona così.

È finito il tempo per cui il testimonial vip andava bene in quanto vip, di chi si tratta diventa quasi secondario, basta che ci sia. Non funziona così. Il testimonial deve scegliere l’organizzazione ma anche l’organizzazione deve scegliere il suo testimonial

Valerio Melandri, fondatore del Festival del fundraising

Un testimonial può funzionare bene per alcune cause e per altre no. Il testimonial deve scegliere l’organizzazione ma anche l’organizzazione deve scegliere il suo testimonial. Il caso scuola in questo senso è quello della Lega del Filo d’Oro che ha preparato con cura, studio, attenzione il passaggio di testimone – ancora in corso, da ormai dieci anni – fra Renzo Arbore e Neri Marcorè. Anche le relazioni con i testimonial possono presentare delle criticità, che vanno gestite: serve una competenza precisa per gestirle con trasparenza, con le comunicazioni corrette. 

Foto di Antonio Mola

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