Non profit

Fundraising: 3 questioni da non trascurare

La raccolta fondi è centrale nella Riforma del Terzo settore e influenzerà la decisione di iscriversi o meno al Runts (il registro nazionale) da parte degli enti. Proprio per questo la carica di fundraiser non può essere ricoperta da una persona che ha “un po’ di tempo a disposizione”, la buona volontà non basta. Per questo è fondamentale una formazione specifica

di Elena Zanella

La prossima iscrizione o meno al Runts (Registro nazionale del Terzo settore – ndr) molto dipenderà dall’orientamento alla raccolta fondi e, da questo, dipenderanno oneri e agevolazioni. La questione “fundraising” sì o no è dunque questione centrale nella Riforma del Terzo settore. La sostenibilità – sembra quasi scontato dirlo ma, allo stato dei fatti, non è poi così scontato come sembra – è tema predominante perché la relazione “buona causa/efficacia/efficienza” pare attecchire anche nelle organizzazioni più restie al cambiamento verso un equilibrio tra valore morale e logica d’impresa. Lo noto nelle aule sempre più numerose che conduco e nei contatti crescenti sul web. Ma l’individuazione della strada più logica da prendere e l’attivazione delle relative azioni finalizzate, appunto, alla sostenibilità è materia complessa che va governata a dovere.
Su questo fronte, ci sono tre aspetti che ricorrono nelle conversazioni che sostengo con forza al riguardo:

1. Il fundraiser è una persona formata e competente, con un ruolo preciso che difficilmente chiunque può ricoprire. Detto in altri termini, il fundraiser non è una carica ricopribile da una persona che ha un po’ di tempo a disposizione. La buona volontà va bene ma, per crescere, va bene fino a un certo punto. A Milano si usa dire ogni ofelèe al fa ‘l so mesté quando si vuol far desistere qualcuno a fare un lavoro che non è in grado di fare o che non gli compete. Invito dunque le onp a riflettere sul fatto di delegare una persona non competente ad assumere il ruolo delicato della sostenibilità. È importante formarsi e farlo bene e continuamente perché la sostenibilità è possibile solo attraverso percorsi strutturati e pianificati con visioni di lungo periodo.


2. Il fundraiser deve imparare a rassegnarsi talvolta. Non tutte le organizzazioni sono pronte a cambiare. Spendere le proprie competenze all’interno di contesti aridi è perfettamente inutile oltre che essere deleterio, al lungo andare. La ricchezza che il fundraiser professionista può portare in un ente è indubbia. Pur essendoci dosi di professionisti sui generis che si spacciano come tali, è certo che negli anni il numero delle persone, soprattutto giovani, preparate è alta ed è in continua crescita. Questo significa che al crescere del numero dei fundraiser capaci, cresce la competizione tra enti e con essa il grado di qualità delle attività prodotte. E via di questo passo. Allo stesso tempo, la domanda che occorre porsi è: ma poi, tutti questi giovani fundraiser sono “collocabili” nel lungo? Perché se nel breve è piuttosto semplice grazie a stage e tirocini, nel lungo la soddisfazione e l’entusiasmo possono spegnersi se non vi è un riscontro economico e il rischio di frustrazione è elevato. Facciamo una riflessione veloce: nel lungo periodo, se le cose non cambiano velocemente a livello culturale e si alza l’asticella portando attenzione alla parola sostenibilità, piuttosto che al termine raccolta fondi, il rischio reale è occupazione zero oltre una certa soglia contributiva.

3. Occorre che le governance affianchino l'umiltà di conoscere alla pretesa di raccolta. Questo è un nodo cruciale che va smarcato. Il futuro del fundraising sarà tanto più roseo quanto le strutture avranno coscienza e consapevolezza circa gli investimenti in cultura degli organi direttivi e delle persone preposte allo sviluppo della sostenibilità, questo vale sia per enti non profit che pubblici naturalmente. Detto in altri termini, i manager del nonprofit deputati alla sostenibilità hanno l’onere di formarsi affinché acquisiscano le competenze per scegliere le risorse giuste e comprendere se gli investimenti e le iniziative proposte hanno o meno senso. Occorre costruire team alleati e consultivi. Senza questa visione, dopo un momento di esaltazione iniziale sull'inserimento della risorsa dedicata alla raccolta fondi a cui si affida il compito, appunto, di "raccogliere soldi", il rischio reale è il piede sul freno a ogni richiesta per mancanza di risorse, di assunzione del rischio e di competenza.

In conclusione, un direttivo formato alla raccolta fondi sa cosa serve per crescere e quale siano le competenze necessarie secondo le proprie opportunità; saprà scegliere le persone giuste, consapevole delle necessità, con pretese pertinenti e di senso. Questa è, a mio parere, la questione centrale. Prima lavoriamo sulla consapevolezza che il fundraising è qualcosa che riguarda un approccio strategico a livello di sistema e non di singola unità e prima riusciremo a compiere il passo verso quella sostenibilità che tanto chiediamo.

*Elena Zanella è amministratore unico della neonata Elena Zanella Srl, Fundraising Academy & Consulting

Le immagini sono della Fundraising Academy

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