Cinquant’anni di attività, festeggiati con la moglie Nadia nella storica sede di via Montecuccoli a Milano dove lo incontriamo. Aimo è inarrestabile, quando parla del suo “Luogo”, della sua cucina e dei suoi giovani collaboratori. Si accende di passione e slancio, quando ricorda le sue origini o i primi viaggi in Vespa per cercare la carne migliore. «Dobbiamo tornare alle cose», ci dice. «Dobbiamo insegnarle ai più giovani, senza smettere mai di imparare».
Viviamo giorni di crisi. Perché parlare di cucina? Non distoglie la nostra attenzione dai cosiddetti “problemi seri”?
Tutt’altro. Parlare, comunicare, dibattere di cucina richiede molta attenzione. Perché la cucina non è business, ma cultura, storia, lavoro, economia, comunità, relazione, civiltà nel senso più ampio e concreto che questo termine può assumere. Purtroppo, oggi, si comunica altro. E quest’altro è un’idea indifferenziata, volgarizzata o d’élite che sia, della cucina. Noi dovremmo concentrarci invece sulle differenze, che alcuni chiamano con disprezzo “povertà”, comprendendo che la territorialità dei prodotti e la frugalità non sono un vizio, che certi loro “inestetismi” non sono un difetto e, soprattutto, che la stagionalità di quei prodotti è un valore. È un “lusso” che proprio ora dobbiamo permetterci. La stagionalità è qualcosa che ci induce a ristabilire un rapporto virtuoso con il tempo. Abbiamo sempre fretta, vogliamo cose rapide, facili da cucinare, vogliamo la quantità, cediamo al capriccio. Fermiamoci e ricominciamo, basta poco. Ma serve attenzione.
Che cosa intende con la parola “attenzione”?
Intendo mettersi alla ricerca del valore vero e non di quello nominale delle cose e cogliere quelle differenze che possono rivelarne la complessità, che è l’indice stesso del nostro rapporto col luogo e della nostra relazione con gli altri. Io prendo prodotti da quel coltivatore e da quell’allevatore: gente che conosco per nome e in volto e con la quale ho stabilito una fiducia non commensurabile in termini di mero denaro. Abbiamo troppo ceduto alla tentazione delle cose semplici. Tutto è semplice, ma non esiste semplicità senza lavoro, pazienza e anche un po’ di fatica. Per questa ragione io credo nella relazione tra gli uomini e la loro terra, magari declinata in quei pochi metri di appezzamento che danno un carciofo o un vitigno particolarmente ricco, mentre spostandosi di pochi centimetri questo non succede più. È una strana e ben complessa alchimia, che ci rimanda a un’idea di cura che risiede nel ben mangiare. Già Ippocrate diceva che il primo nostro medicamento è il cibo che mangiamo. Ma c’è anche un’altra cura, implicata da questa idea di cucina: è la cura richiesta dal ricercare, dal coltivare, dall’attendere e dal pazientare, dall’imparare sempre e comunque, con umiltà, dalle cose e dalle tradizioni. La mia opinione è che un nesso fondamentale lega cucina eD etica del lavoro ed è su questo nesso ? ben chiaro all’economia frugale dei nostri padri e dei nostri nonni ? che dobbiamo insistere.
Lei insiste molto sul ritorno delle tradizioni, nell’idea che questo tipo di cucina possa costituire una fiaccola piccola ma tenace nel buio della crisi…
Io ritengo che, specialmente per i giovani, il passato sia uno slancio. Sono convinto che se riportassimo in tavola la cucina povera e stagionale dell’Italia post bellica, quella che non sprecava nulla, che riutilizzava tutto, che sul pane del giorno prima spalmava burro e zucchero per la colazione dei bambini, faremmo prevenzione, progresso e cultura a costo zero. Un’economia frugale è un’economia della qualità, non della quantità. È un’economia della festa, del piacere e dell’equilibrio, non dello squilibrio permanente.
A chi serve, questa lezione?
Per un bambino, la conoscenza del mondo passa anche attraverso la bocca, attraverso il gusto e il palato. Non solo per un rapporto tra gusto, piacere eD elaborazione di certi dati sensoriali ? un neurologo potrebbe parlare meglio di me, su questo tema ?, ma anche perché se un bambino si convince che il latte è una “cosa” che, “semplicemente”, si trova in un cartone al supermercato, come una bibita, probabilmente non si renderà conto di cosa sta dietro a quel latte ? lavoro, passione, fatica, intrapresa, cura ? per lui la crisi sarà solo e soltanto declinata nei termini di una crisi del consumo. Invece la crisi attuale è una crisi di cultura e di etica del lavoro. Per il basso prezzo corrisposto all’origine al produttore, talvolta i produttori sono costretti al di là della loro coscienza o volontà a usare additivi, pesticidi, trattamenti di vario tipo che accelerano la crescita e fanno decadere la qualità del prodotto. Se tutti fossero pagati il giusto, la qualità sarebbe al centro di una sana economia perfettamente sostenibile. Bisogna però spiegare alla gente che certi cibi “poveri”, certe parti di un animale ritenute ? a torto ? poco “nobili”, spesso sono le migliori.
Ci può fare un esempio?
In un bovino ci sono 10 chili di filetto e 350 chili di polpa. Il filetto costa caro, è morbido e cuoce in fretta… da questo se ne dedurrebbe che nel filetto risieda la miglior qualità. Eppure, in un’ipotetica classifica gustativa il filetto è al quinto posto, dopo la coda, la guancia, lo scamone… Lo stesso potremmo dire del pollo o di altri cibi. Bisogna rovesciare certi luoghi comuni. Oggi la gente va, compera, cuoce, consuma e assume come un dato di fatto ciò che i media e il mercato impongono. Viviamo in una società che anestetizza il piacere, ma aumenta la dipendenza. Dobbiamo invertire questa tendenza. Partendo anche dalla cucina.
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