Politica

François Ruffin: ritratto di chi sta ricostruendo la sinistra francese

Ruffin, giornalista e filmaker, ha ideato e proposto la formula, rapidamente accolta da tutti, del Nuovo Fronte Popolare. È un grande osservatore della realtà. E le leggi oggi devono essere fatte dopo studi etnografici e antropologici. I nuovi leader politici si stanno costruendo, come Ruffin, attraverso un dialogo con il territorio

di Marianella Sclavi

François Ruffin è uno dei personaggi più interessanti e vitali per comprendere lo sconquasso creativo in atto nella sinistra francese. Una sinistra con i partiti in pezzi o scomparsi del tutto, ma che vede la massiccia mobilitazione di milioni di persone contro l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni e che vede le stesse persone che nelle elezioni per il parlamento europeo erano rimaste a casa deluse, darsi una potente scossa al richiamo del “far barrage” contro la possibilità che l’estrema destra vada al governo e uscire vincitrici contro le previsioni quasi di tutti. Per capire il senso di tutto questo, poche altre fonti sono illuminanti quanto gli scritti, film, discorsi e ancor prima la vita e formazione politica di François Ruffin.

Ruffin è colui che ha ideato e proposto la formula rapidamente accolta da tutti, del Nuovo Fronte Popolare. Nato nel 1975, prima di diventare deputato nel 2017 (poi rieletto nel 2022) era già molto noto come fondatore di un giornale bimestrale d’inchiesta ad Amiens (titolo: Fakir) con vocazione apertamente Gramsciana: dare spazio alle esperienze e alla potenzialmente egemonica “ovvietà” dei punti di vista delle classi subalterne e per converso denunciare l’arroganza e il razzismo implicito nell’ auto rappresentazione delle classi dominanti compresi i funzionari dei partiti politici.

Accanto a Gramsci egli cita come decisivo per la sua formazione un saggio di Pierre Bourdieu, intitolato “Le racisme dell’intelligence” (ultimo saggio del libro Questions de sociologie) che presenta l’accesso a titoli accademici come un sostituto dei privilegi degli antichi titoli di nobiltà, vissuto e utilizzato come un diritto a posizioni di potere economico e alla superiorità intellettuale, con un risvolto di disprezzo per altre forme di sapere e incapacità di ascolto e dialogo alla pari con le classi popolari. Una delle inchieste svolte da ventenne in questo giornale locale, riguarda la morte in cantiere di un operaio congolese, sepolto dal crollo di una valanga di pietre, una morte causata da zero misure preventive e zero sistemi di sicurezza e trattata da tutti come una disgrazia non degna di attenzione. Ruffin ne fa il suo “caso Dreyfus” che segue per dieci anni con continue inchieste, coinvolgimenti dei familiari, dei compagni di lavoro, dei sindacati locali, perchè la vita di Hector Loubota, anche se morto, e anche se ignorata dai media locali, dai politici eletti, dalla giustizia, deve essere onorata, a maggior ragione perchè è un immigrato povero e nero, perchè non è figlio di un notabile locale. Un’azione continua che porta a processo il sindaco della città e diventa lo schema di riferimento per le altre inchieste. Fra queste il film documentario pluripremiato, condotto con lo stile sagace di un Michael Moore intitolato “Merci Patron!” che mette in scena la vita di una coppia di operai divenuti disoccupati, travolti dai debiti e a rischio di perdere la casa, per il trasferimento della ditta di beni di lusso per la quale lavoravano (la Kenzo) in Polonia.


Anche qui la “ovvietà” dal punto di vista dei protagonisti viene assunta come lapalissiana: colui che ha guadagnato dal loro lavoro, ha il dovere di proteggerli, non li può abbandonare come se non esistessero. Quello fra dirigenti e dipendenti è un rapporto umano, oltre che economico e giuridico. Viene fatto nome e cognome del manager in questione (si tratta di Bernard Arnault, chairman di LVMH -Louis Vitton Moet Hennessy) e il film sviluppa un dialogo surreale di grande efficacia. Anche qui la continuità fra privilegi della nobiltà feudale e quelli della classe dirigente nel capitalismo sono messi in primo piano: in entrambi i casi, l’assenza del dovere di cura e di protezione fra esseri umani e specialmente fra chi ha più potere e chi meno, è giustificata da leggi più o meno divine, giudicate intoccabili. Bernard Arnault, quando gli è stato chiesto cosa pensa di questo docu-film si è limitato a rispondere. “Il regista vede la mia società come un esempio estremo delle malversazioni dell’economia di mercato”.  François Ruffin si è detto costretto ad occuparsi di politica dall’aver toccato con mano che “rendere pubblica la verità non è sufficiente”. La gente, anche se si indigna ed è angosciata, è prigioniera della ideologia dominante che presenta ogni cosa come priva di alternative ed è dovere della politica trasformare l’angoscia in speranza, rendendo palpabili esperienze e visioni di altri futuri alternativi, possibili, desiderabili.

Al posto di “concorrenza, crescita e mondializzazione” è possibile un mondo basato su  collaborazione/cooperazione, condivisione/partecipazione e protezione/ambientalismo. Uno dei suoi libri il cui titolo è traducibile con  La grande menzogna: Giornale intimo dei miei impulsi protezionistici (2011) è un piccolo capolavoro di auto-consapevolezza emozionale; la sinistra nega il bisogno di protezione, che fa coincidere con la sottomissione, quando la gente normale lo intende come un diritto e un aspetto inalienabile di una società civile. Nel libro Debout les femmes!, Ruffin ricostruisce come le protagoniste stanno vivendo le promesse di Macron durante il Covid di riqualificazione e aumento degli stipendi delle operatrici della sanità e dell’assistenza e cura, poi dimenticate e al tempo stesso denuncia una sinistra che si comporta come una minoranza impotente di fronte a una popolazione che per l’88% è per la indicizzazione dei salari, nel 95% per la polizia di prossimità, per l’80% per i referendum di iniziativa popolare,  88% per le tasse ai super-profitti e così via. Prima del voto del 7 luglio, François Ruffin è uscito, assieme a parecchi altri, da La France insoumise (LFI), il gruppo fondato da Mélenchon al quale aveva inizialmente aderito. La critica verso Mélenchon è aperta e radicale non solo per le posizioni di comprensione verso Hamas e di sostegno solo morale all’Ucraina. E’ proprio il divorzio fra due storie politiche e due epoche. Mélenchon è l’uomo dei comizi in cui si dispiega una retorica ottocentesca, Ruffin è l’inventore della Nuit Debout, un crogiolo dal quale possono nascere mille iniziative volte a chiedersi “dove è il benessere oggi?” (titolo di un altro suo libro e una delle risposte è quella che spiega la concezione del lavoro come valore d’uso e gli scioperi contro l’innalzamento dell’età pensionabile).

All’inizio degli anni 2000 Ruffin ha frequentato la più prestigiosa scuola di giornalismo francese e anche su questa esperienza ha scritto un libro che sintetizza forse meglio di tutti la sua alterità rispetto al sistema di comunicazione dominante. Titolo: Les petits soldats du journalisme. Il libro è un diario di riflessioni su come i media che sono i principali azionisti della scuola, sono anche i veri decisori in termini di curriculum e metodi di insegnamento. Produrre rapidamente e male, sottomettersi al diktat degli ascolti, abbandonare ogni pensiero, obbedire e rimanere in silenzio: questo è ciò che la “migliore scuola di giornalismo in Francia” insegna ai suoi studenti. Ruffin, come la maggior parte dei suoi compagni di corso, sognava “una scuola dove l’inchiesta sarebbe stata regina”, dove “i giornalisti si sarebbero informati prima di informare gli altri”. Invece ha trovato un contesto in cui l’informazione viene confusa con la comunicazione. “Il nostro apprendistato giornalistico si svolge in isolamento dal mondo”, consiste nel tradurre in titoli e “notizie” i dispacci delle agenzie di stampa. In due anni ha potuto svolgere solo due inchieste sul terreno. Tutto viene fatto di fretta, “poiché dobbiamo stare al passo con le notizie.” L’intero libro è una articolata denuncia nei confronti di questa “pedagogia della sottomissione”. Per compiacere i capi delle società di stampa, gli studenti di giornalismo non leggono più e devono pensare il meno possibile “perché il pensiero rallenta”. E confessa: “Mai come al Centre de formation des Journalistes ho vissuto la lettura come un atto di resistenza.” Se la democrazia è darsi il tempo di pensare, i cittadini devono essere messi in grado di farlo, devono avere i modi e i tempi di informarsi e di ascoltarsi a vicenda, per poi poter diagnosticare e decidere. Le forze della sinistra di questo devono farsi carico. Si tratta di lavorare in équipe, tutto l’opposto dello schierarsi con questo o con quel leader. 

AP Photo/Thomas Padilla

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