Salute

Franco Rotelli, fino all’ultimo in difesa della salute mentale

Lo psichiatra Franco Rotelli, uno dei maggiori collaboratori di Basaglia, scomparso oggi, qualche mese fa aveva confidato a VITA le sue preoccupazioni riguardo alla direzione presa dalla psichiatria, tra allontanamento dai bisogni dei cittadini e carenza di fondi. Lo vogliamo ricordare per l'impegno per la comunità e le persone più fragili, portato avanti anche negli ultimi mesi della sua vita

di Veronica Rossi

«La spesa per la salute mentale si riduce ogni anno di più, ci sono sempre meno servizi. C’è un disinteresse verso quelle persone che andrebbero aiutate con continuità e da vicino». In un’intervista di qualche mese fa a VITA, lo psichiatra Franco Rotelli, uno dei principali attori della rivoluzione che ha portato alla chiusura dei manicomi, scomparso oggi, aveva confidato la sua preoccupazione per il futuro della salute mentale. La prossimità e la vicinanza alle persone più fragili era un asse portante del suo lavoro. Direttore generale dell’Azienda sanitaria triestina per una decina d’anni dal 1998, era l’anima delle microaree, un modello di assistenza socio sanitaria territoriale realizzato a Trieste all’interno di immobili dell’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale – Ater in sinergia tra soggetti pubblici, associazioni, organismi della cooperazione sociale e del volontariato. Questa modalità d'azione permette di tutelare la salute, la coesione e il benessere all’interno dei quartieri più vulnerabili, prevenendo il disagio sociale. «Un ponte tra i cittadini più fragili e le istituzioni, che conosce i bisogni delle persone ed è in grado di interpretarli», ci aveva detto Rotelli, « e che crea fiducia nei servizi e aggrega la comunità». Oggi, questi importanti presidi cittadini esistono ancora, ma, secondo lui, sono sviliti e impoveriti, invece che sostenuti.

Lo psichiatra era amareggiato per la situazione della salute mentale, anche nella città in cui aveva lavorato fianco a fianco con Franco Basaglia per costruire un modo diverso e nuovo di stare vicino a chi soffriva. «Nella psichiatria l’unica vera risorsa è quella umana», aveva spiegato. «Adesso, però, gli operatori sono stanchi e demotivati. Da noi sono stati bloccati alcuni concorsi e assunzioni, incoraggiate le pensioni senza che avvenissero le sostituzioni; i servizi domiciliari sono stati ridotti e anche quelli sanitari». A destare la sua preoccupazione, il disinteresse della politica verso chi si trova in condizione di maggiore fragilità. «Dopo aver approvato la Legge 180, ci sarebbe stato bisogno di dare applicazione alla norma, creando delle strutture territoriali coerenti con essa», aveva commentato a questo proposito, «invece tutti i ministri della Sanità, se facciamo eccezione per la ministra Rosy Bindi, non hanno fatto interventi a riguardo». Non a caso, sosteneva Rotelli, la 180 è una delle pochissime leggi – se non l’unica – a essere ricordata in associazione al nome di un tecnico, Basaglia, e non di un politico che l’ha proposta e sostenuta.

Ad avere un problema, pensava lo psichiatra, non era solo la salute mentale. «In Italia si concepisce l’assistenza sanitaria come strettamente legata agli ospedali; ci sono medici di medicina generale ma, quello che si associa alla cura, è solitamente il ricovero» aveva affermato. «Invece è il contrario, la salute la si fa sui territori. Prendiamo per esempio le malattie di lunga durata, come il diabete, quelle da cui non si guarisce ma per cui non si muore: a queste situazioni si risponde di solito con tecniche di internamento ospedaliero, ignorando il fatto che i bisogni principali dei cittadini stanno prima di tutto nella prossimità, nei loro domicili».

Perché le persone siano disposte a curarsi, serve creare un rapporto, instaurare un legame di fiducia. Esserci, come essere umano prima che come medico. È in questo che ha creduto Franco Rotelli, fino alla fine, e, fintanto che ha potuto, ha continuato a partecipare alle manifestazioni a favore della salute pubblica e della medicina territoriale, nella sua città d’adozione, Trieste. Perché, come ci ha detto lui stesso, «il modello basagliano è stato attaccato per motivi ideologici, ma la realtà è che la difesa dei più deboli è una questione di diritti e democrazia, non di colore politico».

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