Cultura

Francesco: la grande rivoluzione è andare alle radici

Henrique Cymerman intervista, per La Vanguardia, Papa Francesco. Il Pontefice: «scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più»

di Redazione

«Scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più» denuncia il Papa in un’intervista esclusiva a «La Vanguardia». Nelle sue risposte, Francesco dimostra tutto il coraggio e la semplicità che stanno caratterizzando il suo pontificato.

Ci sono Paesi dove oggi si perseguitano i cristiani.
I cristiani perseguitati sono una preoccupazione che mi tocca da vicino come pastore. So molte cose sulla persecuzione che non mi sembra prudente raccontare qui per non offendere nessuno. Ma ci sono dei luoghi dove è proibito avere una Bibbia o insegnare catechismo o portare una croce… C’è una cosa che voglio però mettere in chiaro: sono convinto che la persecuzione contro i cristiani oggi sia più forte che nei primi secoli della Chiesa. Oggi ci sono più cristiani martiri che a quell’epoca. E non è una fantasia, lo dicono i numeri.

La violenza in nome di Dio regna in Medio oriente.
È una contraddizione. La violenza in nome di Dio non si confà al nostro tempo. È qualcosa di antico. Con prospettiva storica va detto che noi cristiani, a volte, l’abbiamo praticata. Quando penso alla guerra dei Trent’anni, quella era violenza in nome di Dio. Oggi è inimmaginabile, vero? Giungiamo a volte, attraverso la religione, a contraddizioni molto serie, molto gravi. Il fondamentalismo per esempio. Nelle tre religioni abbiamo i nostri gruppi fondamentalisti, piccoli rispetto a tutto il resto.

Lei che pensa al riguardo?
Un gruppo fondamentalista, anche se non uccide nessuno, anche se non picchia nessuno, è violento. La struttura mentale del fondamentalismo è violenza in nome di Dio.

Alcuni dicono di lei che è un rivoluzionario.
Dovremmo chiamare la grande Mina Mazzini [in realtà Iva Zanicchi], la cantante italiana, e dirle «Prendi questa mano, zingara» e che mi legga il passato, chissà… [risata]. Per me la grande rivoluzione è andare alle radici, riconoscerle e vedere quello che queste radici hanno da dire al giorno d’oggi. Non c’è contraddizione tra essere rivoluzionario e andare alle radici. Non solo, credo anche che il modo per compiere veri cambiamenti sia l’identità. Non si può mai fare un passo nella vita se non partendo da dietro, se non so da dove vengo, che nome ho, che nome culturale o religioso ho.

Lei ha infranto molti protocolli di sicurezza per avvicinarsi alla gente.
So che mi può succedere qualcosa, ma è nelle mani di Dio. Ricordo che in Brasile mi avevano preparato una papamobile chiusa, con i vetri, ma io non posso salutare un popolo e dirgli che gli voglio bene dentro una scatola di sardine, pur se di cristallo. Per me questo è un muro. È vero che qualcosa può succedermi, ma siamo realisti, alla mia età non ho molto da perdere.

Perché è importante che la Chiesa sia povera e umile?
La povertà e l’umiltà sono al centro del Vangelo e lo dico in un senso teologico, non sociologico. Non si può comprendere il Vangelo senza la povertà, ma bisogna distinguerla dal pauperismo. Io credo che Gesù voglia che i vescovi non siano principi, ma servitori.

Che cosa può fare la Chiesa per ridurre la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri?
È dimostrato che con il cibo che avanza potremmo nutrire la gente che ha fame. Quando lei vede fotografie di bambini denutriti in diverse parti del mondo si mette le mani nei capelli, non si capisce. Credo che ci troviamo in un sistema economico mondiale che non è buono. Al centro di qualsiasi sistema economico ci deve essere l’uomo, l’uomo e la donna, e tutto il resto deve essere al servizio di questo uomo. Ma noi abbiamo messo il denaro al centro, il dio denaro. Siamo caduti in un peccato di idolatria, di idolatria del denaro. L’economia è mossa dalla brama di avere di più e, paradossalmente, si alimenta una cultura dello scarto. Si scartano i giovani quando si limita la natalità. Si scartano anche gli anziani perché non servono più, non producono, sono una classe passiva… Scartando i ragazzi e gli anziani si scarta il futuro di un popolo perché i ragazzi vanno con forza in avanti e perché gli anziani ci danno la saggezza, hanno la memoria del popolo e devono passarla ai giovani. E ora è anche di moda scartare i giovani con la disoccupazione. Mi preoccupa molto il tasso di disoccupazione dei giovani, che in alcuni Paesi supera il 50 per cento. Qualcuno mi ha detto che 75 milioni di giovani europei con meno di 25 anni sono disoccupati. È una enormità. Ma scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno fatto sempre i grandi imperi. Ma, visto che non si può fare la terza guerra mondiale, allora si fanno guerre locali. E questo cosa significa? Che si fabbricano e si vendono armi, e così facendo i bilanci delle economie idolatriche, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si sanano. Questo pensiero unico ci toglie la ricchezza della diversità del pensiero e pertanto la ricchezza di un dialogo tra persone. La globalizzazione intesa bene è una ricchezza. Una globalizzazione intesa male è quella che annulla le differenze. È come una sfera, con tutti i punti equidistanti dal centro. Una globalizzazione che arricchisce è come un poliedro, tutti uniti ma ognuno che conserva la sua particolarità, la sua ricchezza, la sua identità, e questo non accade.

La preoccupa il conflitto tra Catalogna e Spagna?
Qualsiasi divisione mi preoccupa. C’è indipendenza per emancipazione e c’è indipendenza per secessione. Le indipendenze per emancipazione, per esempio, sono quelle degli Stati americani, che si emanciparono da quelli europei. Le indipendenze di popoli per secessione sono uno smembramento a volte molto ovvio. Pensiamo all’ex Jugoslavia. Ovviamente ci sono popoli con culture tanto diverse che non si potrebbero attaccare neppure con la colla. Il caso iugoslavo è molto chiaro, ma mi domando se sia altrettanto chiaro per altri popoli che finora sono stati uniti. Bisogna studiare i casi uno per uno. La Scozia, la Padania, la Catalogna. Si troveranno casi che saranno giusti e altri che non lo saranno, ma la secessione di una nazione senza un antecedente di unità forzata va presa con le molle e bisogna analizzarne tutti gli aspetti.

La preghiera per la pace della scorsa domenica non è stata facile da organizzare e non aveva precedenti né in Medio oriente né nel mondo. Come si è sentito?
Lei sa che non è stato facile perché ci stava in mezzo e dobbiamo proprio a lei gran parte del successo. Sentivo che era qualcosa che sfugge a tutti noi. Qui in Vaticano, un 99 per cento diceva che non si sarebbe fatto e dopo l’1 per cento restante ha cominciato a crescere. Sentivo che venivamo spinti a qualcosa che non era venuta in mente a noi, e che, poco a poco, stava prendendo corpo. Non è stato affatto un atto politico — questo l’ho sentito subito — ma un atto religioso: aprire una finestra al mondo.

Perché ha scelto di buttarsi a capofitto in quell’occhio del ciclone che è attualmente il Medio oriente?
Il vero occhio del ciclone, per l’entusiasmo che c’era, è stata la Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro lo scorso anno. Ho deciso di andare in Terra santa perché il presidente Peres mi ha invitato. Sapevo che il suo mandato sarebbe terminato questa primavera, perciò mi sono visto obbligato, in un certo senso, ad andare prima. Il suo invito ha fatto anticipare il viaggio. Io non avevo in mente di farlo.

Perché per ogni cristiano è importante visitare Gerusalemme e la Terra Santa?
Per la rivelazione. Per noi, tutto è iniziato lì. È come “il cielo sulla terra”, un’anticipazione di quello che ci aspetta nell’aldilà, nella Gerusalemme celeste.

Lei e il suo amico il rabbino Skorka vi siete abbracciati di fronte al Muro del pianto. Che importanza ha avuto questo gesto per la riconciliazione tra cristiani ed ebrei?
Ebbene, di fronte al Muro c’era anche il mio buon amico, il professore Omar Abboud, presidente dell’Istituto per il dialogo interreligioso di Buenos Aires. Ho voluto invitarlo. È un uomo molto religioso, padre di due figli. È anche amico del rabbino Skorka e voglio molto bene a entrambi, e ho voluto che questa amicizia tra noi tre si vedesse come una testimonianza.

Un anno fa mi ha detto che «dentro ogni cristiano c’è un ebreo».
Forse sarebbe più corretto dire che «lei non può vivere il suo cristianesimo, non può essere un vero cristiano, se non riconosce la sua radice ebraica». Non parlo di ebreo nel senso semitico di razza, ma in senso religioso. Credo che il dialogo interreligioso debba approfondire questo punto, la radice ebraica del cristianesimo e la fioritura cristiana dell’ebraismo. Capisco che è una sfida, una patata bollente, ma si può fare come fratelli. Io recito tutti i giorni l’ufficio divino con i salmi di Davide. I 150 salmi li ripetiamo in una settimana. La mia preghiera è ebraica, e poi ho l’eucaristia, che è cristiana.

Come vede l’antisemitismo?
Non saprei spiegare perché avviene, ma credo che sia molto legato, in generale, e senza che sia una regola fissa, alle destre. L’antisemitismo solitamente si annida meglio nelle correnti politiche di destra piuttosto che di sinistra. Non crede? E continua ancora. C’è persino chi nega l’olocausto. Una pazzia.

Uno dei suoi progetti è quello di aprire gli archivi del Vaticano sull’olocausto.
Porteranno molta luce.

La preoccupa quello che si potrebbe scoprire?
Su questo punto a preoccuparmi è la figura di Pio XII, il Papa che guidò la Chiesa durante la seconda guerra mondiale. Al povero Pio XII è stato buttato addosso di tutto. Ma bisogna ricordare che prima era visto come il grande difensore degli ebrei. Ne nascose molti nei conventi di Roma e di altre città italiane, e anche nella residenza estiva di Castel Gandolfo. Lì, nella stanza del Papa, sul suo stesso letto, nacquero 42 bambini, figli di ebrei e di altri perseguitati rifugiatisi lì. Non voglio dire che Pio XII non abbia commesso errori — anche io ne commetto molti — ma il suo ruolo va letto nel contesto dell’epoca. Era meglio, per esempio, che non parlasse perché non uccidessero più ebrei, o che lo facesse? Voglio anche dire che a volte mi viene un po’ di orticaria esistenziale quando vedo che tutti se la prendono con la Chiesa e con Pio XII e si dimenticano delle grandi potenze. Lo sa che conoscevano perfettamente la rete ferroviaria dei nazisti per portare gli ebrei ai campi di concentramento? Avevano le foto. Ma non bombardarono quei binari. Perché? Sarebbe bene che parlassimo un po’ di tutto.

Lei si sente ancora come un parroco o ha assunto il suo ruolo di capo della Chiesa?
La dimensione di parroco è quella che mostra di più la mia vocazione. Servire la gente mi viene da dentro. Spengo la luce per non spendere troppi soldi, per esempio. Sono cose che fa un parroco. Ma mi sento anche Papa. Mi aiuta a fare le cose con serietà. I miei collaboratori sono molto seri e professionali. Ho aiuti per compiere il mio dovere. Non bisogna giocare al Papa parroco. Sarebbe un immaturo. Quando viene un capo di Stato, devo riceverlo con la dignità e il protocollo che gli si addicono. È vero che con il protocollo ho i miei problemi, ma bisogna rispettarlo.

Lei sta cambiando molte cose. Verso quale futuro portano questi cambiamenti?
Non sono un illuminato. Non ho un progetto personale che ho portato sotto il braccio, semplicemente perché non ho mai pensato che mi avrebbero lasciato qui, in Vaticano. Lo sanno tutti. Ero venuto con una valigetta per tornare subito a Buenos Aires. Quello che sto facendo è realizzare quello che noi cardinali abbiamo pensato nelle congregazioni generali, cioè nelle riunioni che, durante la sede vacante, abbiamo tenuto ogni giorno per discutere i problemi della Chiesa. Da lì vengono riflessioni e raccomandazioni. Una molto concreta è stata che il prossimo Papa doveva poter contare su un consiglio esterno, cioè un gruppo di consiglieri che non vivesse in Vaticano.

E lei ha creato il cosiddetto consiglio degli Otto.
Sono otto cardinali di tutti i continenti e un coordinatore. Si riuniscono qui ogni due o tre mesi. Ora, il 1° luglio abbiamo quattro giornate di riunione, e faremo i cambiamenti che gli stessi cardinali ci chiedono. Non è obbligatorio farlo, ma sarebbe imprudente non ascoltare quelli che sanno.

Ha anche fatto un grande sforzo per avvicinarsi alla Chiesa ortodossa.
Mio fratello Bartolomeo è venuto a Gerusalemme per commemorare l’incontro di cinquant’anni fa tra Paolo VI e Atenagora. Fu un incontro dopo oltre mille anni di separazione. Dal concilio Vaticano II la Chiesa cattolica si sta sforzando di avvicinarsi alla Chiesa ortodossa. Con alcune Chiese ortodosse c’è più vicinanza che con altre. Ho voluto che Bartolomeo venisse con me a Gerusalemme e lì è nata l’idea che partecipasse anche alla preghiera in Vaticano. Per lui è stato un passo rischioso perché glielo possono rinfacciare, ma bisognava compiere questo gesto di umiltà, e per noi è necessario perché non è concepibile che noi cristiani siamo divisi, è un peccato storico che dobbiamo riparare.

Dinanzi alla crescita dell’ateismo, cosa pensa della gente la quale crede che la scienza e la religione siano escludenti?
C’è stato un aumento dell’ateismo nell’epoca più esistenzialista, direi quella sartriana. Ma dopo c’è stato un progresso verso ricerche spirituali, di incontro con Dio, in mille modi, non necessariamente quelli religiosi tradizionali. Lo scontro tra scienza e fede ha avuto il suo apogeo nell’illuminismo, ma oggi non è più tanto di moda, grazie a Dio, perché ci siamo tutti resi conto della vicinanza tra le due. Papa Benedetto XVI ha un buon magistero sul rapporto tra scienza e fede. In linea generale, la cosa più comune è che gli scienziati siano molto rispettosi della fede e lo scienziato agnostico o ateo dica: «Non oso entrare in questo campo».

Lei ha conosciuto molti capi di Stato.
Sono venuti in molti e la varietà è interessante. Ognuno ha la sua personalità. A richiamare la mia attenzione è stato un fatto trasversale tra i politici giovani, siano essi di centro, di sinistra o di destra. Forse parlano degli stessi problemi ma con una nuova musica, e questo mi piace, mi da speranza perché la politica è una delle forme più elevate dell’amore, della carità. Perché? Perché porta al bene comune, e una persona che, potendo farlo, non s’impegna in politica per il bene comune, è egoista; o, se usa la politica per il proprio bene, è corrotta. Circa quindici anni fa i vescovi francesi hanno scritto una lettera pastorale che è una riflessione con il titolo Réhabiliter la politique. È un bel testo, ti fa rendere conto di tutte queste cose.

Cosa pensa della rinuncia di Benedetto XVI?
Papa Benedetto ha compiuto un gesto molto grande. Ha aperto una porta, ha creato un’istituzione, quella degli eventuali Papi emeriti. Fino a settant’anni fa non c’erano vescovi emeriti. Oggi quanti ce ne sono? Ebbene, dato che viviamo più a lungo, giungiamo a un’età in cui non possiamo continuare a occuparci delle cose. Io farò lo stesso, chiederò al Signore di illuminarmi quando giungerà il momento e che mi dica quello che devo fare, e me lo dirà sicuramente.

Lei ha una stanza riservata in una casa di riposo a Buenos Aires.
Sì, in una casa di riposo per sacerdoti anziani. Dovevo lasciare l’arcivescovado entro la fine dello scorso anno e avevo già presentato la rinuncia a Papa Benedetto per quando avrei compiuto 75 anni. Ho scelto una stanza e ho detto: «Voglio venire a vivere qui». Lavorerò come prete, aiutando le parrocchie. Questo doveva essere il mio futuro prima di diventare Papa.

Non le domando per chi tifa nel Mondiale…
I brasiliani mi hanno chiesto neutralità [ride], mantengo la parola perché il Brasile e l’Argentina sono stati sempre rivali.

Come le piacerebbe che la ricordasse la storia?
Non ci ho pensato, ma mi piace quando uno ricorda qualcuno e dice: «Era bravo, ha fatto quello che ha potuto, non è stato così male». Mi basta questo.

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