“Bentornato, come va? Tutto bene”: la domanda non è ironica, è naturale da parte di chi lavora qui, in reparto, tutti i giorni, a contatto con persone di ogni età e di ogni provenienza, unite dalla comune esperienza di un evento traumatico serio, quasi sempre para o tetraplegia. Io sono un po’ borderline, con la mia snobissima osteogenesi imperfetta, ma ormai sono di casa, all’Unità spinale di Niguarda.
Due anni fa qui mi hanno rimesso in condizione di vivere da capo, dopo aver visto la morte da vicino, con l’asportazione totale del colon. Medici e infermieri sanno in pratica tutto di me, del mio corpo, ma anche del mio modo di reagire, di relazionarmi con loro.
Il mondo visto dal letto 14 non è poi così balordo, né ristretto. Stamani, mentre un bravissimo infermiere mi stava lavando dappertutto, parlavamo di politica, di giovani, di speranze, di tasse, di computer. Accettare di affidare se stessi agli altri, che non sono estranei, ma semplicemente persone che hanno a loro volta accettato un lavoro duro, con tanti aspetti gradevoli, crudi, è uno scambio di reciprocità.
Mi viene a trovare qui, nella mia nuova dimora, C., era il mio compagno di stanza a ortopedia, nello stesso ospedale. Siamo stati tre giorni insieme. C. ha 29 anni, romeno di origine, vive a Milano da tanti anni. “Ho la carta d’identità” mi ha detto subito, orgoglioso, in un italiano nitido e ben scandito. Mi ha fatto vedere le foto della sua bimba di dieci mesi. E’ qui per riparare un polso, non una cosa tremenda, ma per lui fondamentale per non perdere il lavoro. Lo pagano a cottimo, fa il gruista, il muratore, qualunque cosa. Per una ditta italiana, ovviamente. Senza contributi, senza assegni familiari, senza ferie, senza diritti. Lo sa benissimo. O così o niente lavoro. Ci siamo scambiati idee, esperienze, speranze.
Accanto a me, qui all’unità spinale, c’è un altro lavoratore, egiziano. Caduto da una scala, come succede nei piccoli lavori di edilizia. Anche lui non sa adesso quale potrebbe essere il suo futuro, con la paraplegia, la perdita della funzionalità delle gambe, e la famiglia in Egitto. Parla coi suoi, fitto fitto, usando skype, la sera, con il suo piccolo computer portatile. E’ sempre triste e preoccupato, e lo capisco.
Ho la sensazione che stia cambiando la tipologia dei ricoverati, qui si vedono finalmente gli italiani nuovi, quelli che fanno i lavori che non ci piacciono o che non rendono abbastanza per vivere. L’assistenza sanitaria resta forse l’ultimo baluardo della nostra civiltà di welfare, e ha pure un costo, forse maggiore se confrontata al rispetto delle regole sul lavoro. Questo costo ci riguarda, ma noi stiamo pensando quasi solo ai tagli.
Guardo la televisione e improvvisamente il dibattito asfissiante attorno alla politica mi pare insopportabile, antico e malato. Provo a pensare che stiamo davvero arrivando a un momento di svolta, qualcosa sta succedendo, magari proprio mentre io, qui, cerco di tornare almeno a sedermi su una sedia a rotelle.
E’ curioso sentirsi vivi e in relazione con il mondo anche qui, nel letto 14. E’ un’occasione irripetibile per sospendere i giudizi, per fare luce dentro di me, per ripensare le modalità di un impegno morale e sociale. Ho la sensazione che oggi la scelta fondamentale sia fra continuare a far finta di niente, oppure dedicare ogni giornata a un pensiero attivo, e magari anche solidale. A costo zero.
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