Dipendenze & Comunità

Fra ragazzini e over-60, nel gorgo delle sostanze

Si allarga la forbice delle tossicodipendenze: scende l'età e aumentano gli "anziani". «Anelli deboli della catena, fa palesare che qualcosa all’interno di un sistema non funziona. Oggi le comunità sono dei luoghi in cui viene rielaborato un percorso di vita. Bisogna lavorare alla formazione, anche universitaria, e abbandonare l’approccio emergenziale. E anticipare la presa in carico». Così Biagio Sciortino, presidente del Coordinamento nazionale dei Coordinamenti regionali degli Enti accreditati per le dipendenze-Intercear e direttore della Casa dei Giovani, che ha sedi fra Sicilia e Basilicata

di Ilaria Dioguardi

Continua il viaggio di VITA nell’emergenza delle dipendenze, con un approfondimento sul mondo delle comunità. Ce ne parla Biagio Sciortino, che dal 1995 lavora alla comunità terapeutica Casa dei Giovani in Sicilia e Basilicata, con otto centri di accoglienza.

Sciortino, le comunità che ruolo hanno oggi?

Io penso che le comunità terapeutiche siano ancora una delle risposte più importanti al mondo del disagio giovanile. Una comunità non intesa come 30 anni fa, ma dinamica, che vive nella necessità di dare risposte diversificate. La comunità di oggi non deve essere una struttura protetta in cui sei chiuso e attendi che le cose cambino, la vedo oggi come una chiara e evidente realtà di relazione.

Come si lavora oggi all’interno delle comunità terapeutiche?

Parliamo di oltre 3mila strutture in Italia. Ci sono delle grandi organizzazioni che racchiudono, all’interno del sistema delle comunità, non soltanto i centri residenziali ma tutto il corollario dell’accompagnamento della persona, per offrire una qualità di vita diversa dalla presa in carico all’inserimento sociale e lavorativo. Nelle comunità non si svolgono soltanto percorsi di lunga gittata, di 2 anni e più, ma di breve-media durata, è fondamentale il supporto psicologico per i ragazzi e le loro famiglie, c’è anche lo stare assieme, la condivisione della “comune” di tipo francese. La relazione credo sia terapeutica ed efficace per distruggere quel disagio e quella solitudine relazionale a cui i ragazzi vanno incontro. Intendo la comunità come luogo di vita, di scambio, di condivisione delle fragilità e del malessere. Il dolore che i giovani portano dentro la struttura non deve essere più visto come qualcosa di cui avere paura, ma deve essere rimodulato e lavorato assieme al ragazzo e alla famiglia. Nelle comunità il sistema abbraccia a pieno regime la prima fase della prevenzione o della remissione del danno (anche se questo termine ormai mi sembra arcaico), con servizi di prossimità: su strada, con ambulatori ambulanti, con accoglienze di ascolto. Poi il passaggio naturale è far maturare al giovane l’idea di accedere a una struttura residenziale, ma per un breve periodo. Oggi non puoi proporre a un ragazzo di stare due anni in comunità. Oggi la comunità la vedo in simbiosi e in sinergia con i servizi pubblici.

Le persone come arrivano alle comunità?

Le migliaia di persone che accedono in comunità hanno la fortuna di transitare per i servizi pubblici. Oggi abbiamo un’utenza che viene indirizzata attraverso diversi canali, o attraverso i servizi pubblici per le dipendenze (SerD) o dalle aree educative delle carceri oppure arrivano da accessi che vanno dall’unità di strada a quelli che sono i servizi pubblici a cui si avvicinano attraverso le famiglie. Questi sono i canali che portano ad avere una capacità interattiva con tutto il sostrato culturale e sociale in cui il ragazzo vive.

Quali sono i modelli di cura?

Biagio Sciortino, presidente del Coordinamento Nazionale dei Coordinamenti Regionali degli Enti Accreditati per le dipendenze-Intercear e direttore della Casa dei Giovani, che ha tre sedi: Bagheria, Mazara del Vallo e Matera

Oggi le comunità sono dei luoghi in cui viene rielaborato un percorso di vita, in cui c’è la parte della gestione della vita quotidiana, i ragazzi si prendono cura dell’ambiente in cui vivono. Credo molto in questo: il bello esteriore trasmette una bellezza interiore e una purezza. Nelle comunità si svolgono percorsi laboratoriali, di rieducazione relazione, affettiva, dello stare insieme. Ad esempio, i laboratori teatrali sono molto utili. Nelle comunità si fanno cose che, all’interno di ogni società, andrebbero fatte fare ai nostri giovani. In molte strutture sono attivi dei corsi di formazione professionale: l’aspetto del reinserimento è straordinariamente importante. Se non si cura quest’aspetto, alla fine il ragazzo si ritrova in una società che non riconosce e che non lo riconosce.

Un lavoro importante è anche quello con le famiglie?

Assolutamente sì. Lavorare con le famiglie vuol dire far connotare la condizione di dipendenza all’interno di un sistema familiare che ha delle problematicità. Il ragazzo dipendente non è altro che l’anello debole della catena, fa palesare che qualcosa all’interno di quel sistema non funziona. Io leggo sempre nella rabbia, nel dolore, nell’aggressività, nella riluttanza alle regole una difficoltà a vivere, a farsi carico del proprio dolore, delle proprie fragilità. La comunità è un luogo di cura ma è soprattutto un luogo in cui ci si prende, nella totalità, carico della persona. I servizi di oggi (e le comunità incarnano questo) sono centrati sulla persona, devono essere modulati, accoglienti, stimolanti. Quando parliamo delle difficoltà del servizio pubblico, della carenza del personale è un grande problema. Anche i dati del rapporto Impatto socio-sanitario ed economico delle dipendenze in Italia dell’Osservatorio Impatto Socio-Economico delle Dipendenze – Oised lo hanno evidenziato, con un calo del 6,2% del personale nei servizi pubblici per le dipendenze (SerD). Anche nelle comunità c’è carenza del personale, ma sono strutture aperte 24 ore su 24, non si ha la sensazione di essere trascurati: noi siamo lì, non possiamo dire alle persone di tornare, per una visita, dopo un mese. In comunità parliamo delle sostanze usate, del crack, del fentalyn che ha causato tanti morti in America, oggi è mixato con una sostanza veterinaria con parti di cocaina, diventa una specie di “masticatore” della parte cutanea (è un vasocostrittore). Ne parleremo tra qualche anno, quando vedremo gli effetti. Al di là delle sostanze, dobbiamo fare i conti con una società che non sa rispondere adeguatamente ai bisogni, alle sofferenze, alle solitudini delle persone. Dei giovani e non solo: nessuno parla delle persone over 50 e over 60. Il dolore, la sofferenza sono trasversali: non conoscono ricchezze, stati sociali, età.


Cosa la preoccupa di più oggi?

Sicuramente l’età dei ragazzini con dipendenze che si è maledettamente, tremendamente abbassata. Abbiamo avuto casi di ragazzini dipendenti di 11 anni. Tu pensi: cosa posso fare con un ragazzino di 11 anni, se lo paragono con un sessantenne che usa sostanze da 30 anni? C’è una diversificazione, una trasversalità nella sofferenza umana. Per questo mi piace pensare alla comunità come a un involucro in cui, al suo interno, si punta alla qualità del servizio per l’uomo, mettendolo al centro di ogni azione. Questo è la comunità, lo è sempre stata ma non è più una comunità impreparata del “vogliamoci bene”, dell’improvvisazione fraterna. Sono serviti anche questi aspetti perché una parte fondamentale dell’accoglienza rimane molto importante. Non c’è più una comunità rigida, chiusa, con i fondatori “guru” che incarnavano la soluzione di tutto, ma sono stati la spinta, negli anni Settanta e Ottanta.

Lei, questa spinta, l’ha ritrovata nella Casa dei Giovani, di cui è direttore?

Sì, ho avuto la fortuna di lavorare con padre Salvatore Lo Bue, il fondatore della Casa dei Giovani di Bagheria, di cui sono presidente. È stato il primo in Sicilia a operare in questo campo, dal 1978. Oggi averlo accanto non è una negatività, ho assorbito il valore, l’attenzione poste verso l’uomo e la sua sofferenza. Questo, messo in un contesto scientificamente approvato e validato, diventa una cosa straordinaria perché, al di là dell’intervento immediato del servizio pubblico, poi il ragazzo torna a casa e rimane con la sua solitudine. Lì sta il dramma: un giovane ha bisogno di condividere. Subentra il valore straordinario della comunità, in tutte le sue evoluzioni.

Quali sono le evoluzioni della comunità?

Gli appartamenti di reinserimento, le micro comunità, i servizi ambulatoriali, i servizi a domicilio per le persone over 60. Per me rimane straordinariamente fresca l’idea di stare assieme, come comunità.

Qual è la scommessa del futuro?

Intercettare prima possibile le persone con dipendenze, anticipare la presa in carico perché ci giochiamo tutto in questo. L’azione principale è l’intervento sulla società, sulle agenzie idonee, che sono il centro principale: famiglia, scuola, gruppi di tutti i tipi (sportivi e non). All’interno di queste agenzie va fatta un’azione di sensibilizzazione, di formazione, di prevenzione. Per intercettare le persone, a Palermo stiamo anche lavorando a un progetto di contrasto al crack nei quartieri storici.

Nel recente rapporto Impatto socio-sanitario ed economico delle dipendenze in Italia dell’Osservatorio Impatto Socio-Economico delle Dipendenze – Oised, emerge un dato relativo alla popolazione carceraria: i detenuti per spaccio di sostanze stupefacenti sono il 31,8%. I detenuti tossicodipendenti sono 16.845, in aumento rispetto al 2015 del 25,1%.

È un campo minato. Con lo “Svuotacarceri” si è avuto il rischio di riempire le comunità terapeutiche di persone che non erano fondamentalmente dipendenti da sostanze, ma malavitose. Ci deve essere una figura in grado di capire se una persona subisce le sostanze o le gestisce economicamente. Manca un elemento importante, nella diagnosi, nelle carceri così come negli ospedali: il motivatore, chi fa capire alle persone dipendenti cos’è una comunità. Non succede il miracolo, le persone non vanno a cercare aiuto oppure lo cercano nei posti sbagliati.

A suo avviso, come bisogna muoversi?

La mia idea è che bisogna muoversi su tre assi. L’asse della prevenzione: non tutti possono fare prevenzione, ma bisogna formare i formatori, creare gli operatori di prevenzione. Secondo, manca una formazione universitaria, non c’è un corso specifico. L’Italia, negli anni Novanta, è stata innovatrice, era all’avanguardia in Europa come sistema di approccio alle dipendenze patologiche, non capisco perché non abbiamo seguito e sfruttato quest’innovazione. Terzo, manca l’attrattiva verso il settore delle dipendenze, oggi viste come l’ultima ruota del carro della sanità. I giovani laureati vanno all’estero, trovano poco gratificante anche economicamente lavorare in Italia. Ci sono tante persone, anche nel pubblico, che rasentano la legalità e che si “sbattono” insieme a noi per trovare soluzioni. Le società scientifiche stanno facendo un grande lavoro, hanno dato un impulso importante per far capire che le dipendenze sono un problema serio. Le dipendenze sono la manifestazione di un disagio di vivere, che abbiamo tutti. Tutti abbiamo bisogno di relazioni umane vere, le dipendenze da sostanze e comportamentali sono indistinguibili le une dalle altre, vano a braccetto. Lo Stato deve capire che deve dare delle direttive, delle idee portanti, deve uscire dalla fase emergenziale, altrimenti rincorreremo sempre queste persone che hanno un mal di vita. Ho in mente il celebre quadro di Matisse La Danza: persone che danzano e si stringono le mani, in cerchio. Questo per me sono la vita e la comunità: condivisione.

Puntata n. 1

La foto in apertura è di Luigi Innamorati/Agenzia Sintesi

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