Volontariato

“Fra e Bro”, l’incontro con «l’altro» comincia da qui

Dopo tre anni e 13mila studenti incontrati, un nuovo libro parte dal progetto "Con altri occhi" per un viaggio alla scoperta delle migrazioni e - soprattutto - di chi le ha fatte

di Sara De Carli

Tre anni di progetto, 13mila studenti incontrati, migliaia di bigliettini con le riflessioni spontanee dei bambini e dei ragazzi che sono la miglior valutazione d’impatto del progetto e del cambiamento che esso ha generato. Un cambiamento di sguardo, certo, come dice già il nome del progetto, ora diventato anche un libro. Ma anche un cambiamento molto concreto nelle dinamiche sociali dei territori a cui esso, per scelta, si è rivolto: là dove aver conosciuto in classe Mamadou, Harris, Wilfrid o Bourama genera immediatamente relazioni differenti con lui quando lo si incontra di nuovo, per caso, per strada. Un passaggio in macchina, una cena con famiglia al ristorante in cui lui lavora (“Hei bro, hai visto che sono venuto davvero?”), l’invito a un picnic nel parco… da cose così i piccoli hanno cambiato anche lo sguardo dei grandi. «Vieni qui, non parlare con gli sconosciuti», dice una nonna all’uscita di scuola. «Ma nonna, lui è Mamadou! Dopo ti racconto», risponde la bambina.

Il progetto si chiama “Con altri occhi” ed è stato ideato dalla cooperativa sociale Aeris, che opera in Brianza. Nella primavera del 2011 la Prefettura la contattò per accogliere i primi migranti di quella che si chiamava “Emergenza Nord Africa”. Dissero di sì e scelsero l’accoglienza diffusa. Accanto all’accoglienza maturò ben presto la consapevolezza della necessità di un “viaggio culturale”, per far comprendere ai cittadini il valore di quell’esperienza. Scelsero la scuola. “Con altri occhi” nacque così, nel 2016. Con un “Viaggiatore” – Daniele Biella, giornalista ed educatore, con alle spalle un forte e fortunato libro sulla storia di Nawal, una ragazza di origini marocchine che vive a Catania che con il suo telefono acceso ha aiutato migliaia di migranti a sopravvivere al viaggio della disperazione nel Mediterraneo e a non cedere al racket degli "scafisti di terra" – che entra nelle classi delle scuole primarie e secondarie di primo grado per parlare insieme ai ragazzi di migrazioni forzate.

Insieme a lui (ed è questa la novità e la forza del progetto) c’è un testimone. Una persona titolare di protezione internazionale o in attesa di ricevere una risposta alla sua richiesta. Un ragazzo poco più grande di quelli che siedono fra i banchi, che racconta il suo viaggio ma soprattutto il suo “chi sono”, con ricordi, fatiche, paure, speranze e sogni. È lui che risponde ai ragazzi e la domanda “Qual è il tuo colore preferito” è importante – è evidente, se pensiamo ai fini del progetto – quando la classica “È vero che ti danno 35 euro al giorno per stare in Italia”. Così come la risposta.

«Grazie Wilfrid per avere coraggio», si legge in un bigliettino. «Non è la solita storia per sensibilizzare la gente, è la storia di una vita. Vera», è scritto in un altro. «Questo incontro è stato molto bello perché ha spiegato cose a cui le persone magari non ci arrivano. Deve esserci proprio qualcuno che ti racconta la sua storia per aprirti gli occhi». Dopo tanti incontri, “Con altri occhi” è diventato anche un libro, con lo stesso nome, di cui è appena uscita una nuova edizione, pubblicata da Fabbrica dei segni editore.


Daniele, qual è “la goccia” che questa esperienza ha portato nel mare del bisogno di informare e fare cultura sul tema delle migrazioni forzate?
​La “goccia” che porta è la possibilità per gli studenti e i docenti coinvolti di fare un’idea più chiara su questo tema, dato che hanno davanti a se testimoni diretti, che si tratti del giornalista che è andato sul campo o della persona che ha fatto la migrazione. Incontrarsi di persona significa metterci la faccia, e quando lo fai devi essere del tutto autorevole, consapevole del fatto che per le persone con cui stai dialogando sei un esperto da cui trarre beneficio. Si parla di tutto, c’è completa libertà nel fare domande e osservazioni a cui fanno seguito risposte e ragionamenti non retorici, ma che vanno dritti al punto. Informare sulle migrazioni forzate – le cause, le dinamiche di viaggio, i problemi legati ai documenti – significa cercare di fare capire cosa sta succedendo e come, in modo tale che l’opinione personale che ne esce successivamente, qualunque essa sia, derivi da una conoscenza più diretta di prima e disintossicata dal veleno delle fake news. Lo scopo del libro del resto è proprio rendere ancora più ampia la portata di questa esperienza progettuale in termini culturali e di coesione sociale.

Agli incontri, come dicevi, partecipa un testimone, poco più grande dei ragazzi. Si tratta di una persona che vive nello stesso paese/territorio, che poi si incontra per strada: quanto questo elemento è cruciale e perché? Sono molto belli i racconti dei piccoli-grandi momenti di incontro che sono stati generati, a cascata, dall’esperienza in aula.
L’incontro con chi ha vissuto sulla propria pelle questi viaggi, ognuno con la propria storia, permette di superare una sorta di muro invisibile che spesso ci fa giudicare prima di conoscere. In un ambiente protetto come la scuola, l’incontro con il testimone titolare di protezione internazionale permette agli alunni di sperimentare la diversità da vicino, in un contesto familiare. Che getta le basi, nel caso di un incontro successivo fuori dall’ambiente scolastico, per generare un effetto domino di maggiore conoscenza di persone come i testimoni di “Con altri occhi” anche da parte degli adulti di riferimento degli studenti. Chiedere di fare testimonianze a persone che vivono in zona significa aggiungere normalità all’incontro con un “diverso” che in realtà lo può essere fisicamente e per storia personale ma è un essere umano tanto quanto lo sono tutti. La normalità della diversità, a conti fatti. Perché l’approccio degli alunni verso i testimoni non è mai quello pietistico ma è sempre molto orizzontale, senza filtri né pregiudizi.

Come e perché la partecipazione a questo progetto è importante anche per i testimoni?
​Per i quattro ragazzi – dai 20 ai 23 anni – che finora hanno collaborato a Con altri occhi l’esperienza ha un notevole impatto sulle proprie vite. Raccontarsi davanti a classi di studenti che per due ore non tolgono lo sguardo dai tuoi occhi è intenso e ti mette molto in gioco. Per alcuni l’inizio non è stato facile ma nessuno di loro ha mai mollato, nonostante alla fine siano parecchie migliaia ogni anno questi sguardi. In decine e decine di incontri ognuno diverso dall’altro, perché cambia l’età degli alunni, le loro domande, il momento della giornata in cui ci si incontra… che non è mai uguale all’ieri o al domani. Dal punto di vista relazionale, la loro già buona conoscenza dell’italiano è diventata ottima – sono persone che parlano almeno 5 lingue, tra lingue europee ed etniche dei Paesi di origine – e ogni volta ricevono complimenti non scontati da parte dei professori, oltre ad abbracci e strette di mano dei ragazzi. Questo significa molto per la loro crescita personale e per dare loro stimoli positivi in un momento della loro vita in cui stanno ricostruendo una normalità che a causa della migrazione forzata era stata del tutto interrotta. Nel libro, nel capitolo “Sentirsi a casa”, Harris, Mamadou, Bourama e Wilfrid raccontano in prima persona come si sono sentiti a mettere il piede nelle classi e lo fanno con una franchezza degna di grande stima.

In questo momento può essere che un progetto del genere rischi anche di essere contestato da alcuni genitori: è capitato? E in generale la scuola che hai incontrato, rispetto a questi temi, che sensibilità ha?
Il progetto è entrato ora nel quarto anno di attività e quest’anno, anche grazie a un’ulteriore proposta chiamata No One Out (promossa sempre da Aeris Cooperativa Sociale e cofinanziata con un bando da Fondazione Comunità Monza e Brianza) dedicata anche a dispersione scolastica e cittadinanza attiva, oltre alle elementari e alle medie si aggiungeranno molti incontri alle superiori. Un’unica volta c’è stata una rimostranza da parte di un genitore, che segnalava di non essere venuto a conoscenza del progetto: in questo caso la scuola, che comunque aveva presentato come sempre accade il progetto nell’assemblea di classe, ha fatto un ulteriore momento formativo per i genitori tra primo e secondo incontro di Con altri occhi. L’approccio della scuola è stato lodevole e anche in questo caso, a progetto concluso, il corpo docenti ha espresso soddisfazione per la qualità della proposta. Nelle decine di scuole in cui si è entrati, e quindi con le centinaia di docenti con cui Con altri occhi collabora, abbiamo sempre trovato una grande serietà e interesse, e questo è un ulteriore valore aggiunto che esce con evidenza anche nelle pagine del libro e che fa capire come la valenza educativa e culturale di questo progetto, fondato sul diffondere maggiore conoscenza sulle migrazioni forzate, sia condiviso da tutti e vada al di là delle opinioni personali di ciascuno.

Dal punto di vista emotivo, qual è stato il momento più forte di questi tre anni?
Tanti. Forse le volte in cui Wilfrid canta il gospel che ha intonato sul gommone, quando era in mezzo al mare e gli hanno detto che il motore si era rotto. È tra i momenti più intensi. Wilfrid nel libro racconta anche com’è stato che una volta, durante un incontro, gli è venuto in mente di cantare quel canto davanti ai ragazzi che gli avevano chiesto “cosa hai pensato quando eri sul gommone?”. Poi gli abbracci finali, anche alle medie e alle superiori, assolutamente non scontati.

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