Politica

Forza di gravità

di Franco Bomprezzi

Succede di non essere capiti al volo. Chi fa questo mestiere lo sa benissimo. Specie quando si cerca di usare l’ironia, uno strumento difficile da maneggiare, e soprattutto un registro di scrittura che si scontra regolarmente con l’abituale rigore concettuale di chi ogni giorno è impegnato sul fronte di battaglie dure, se non estenuanti. Ho scritto un breve pezzo, per una piccola rubrica nel magazine “Superabile”, rivista edita da Inail nell’ambito del progetto di contact center e di portale dedicato alle persone con disabilità, una creatura che – molti di voi ricorderanno – ho in qualche modo contribuito a far nascere, anni fa.

Una rubrica leggera, sulle parole, 1800 battute per ragionare attorno ai luoghi comuni, alle definizioni che si danno per scontate. Ebbene, a giugno ho parlato della locuzione “non autosufficiente”. E’ uno dei nodi attorno ai quali si giocano, al ribasso, le prestazioni sociosanitarie e perfino la certificazione di invalidità, emolumenti annessi. Ho scritto, in conclusione: “Certo, “non autosufficiente” è un termine davvero bruttino. Tanto più che non c’è una definizione precisa, neppure nella legge quadro 328 (come documenta in modo eccezionale e rigoroso Carlo Giacobini su Handylexpress). Perché sempre sottolineare il “non”? Perché la disabilità è una selva di non possumus? Sembra di leggere Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». “Non autosufficiente”, certo: non mi basta un’auto, ne voglio due. E un camper. Questo è l’unico modo per me di interpretare una micidiale schedatura, che sta portando le famiglie, in Italia, a cercare sempre e comunque di dimostrare che i propri figli sono davvero incapaci, inabili, inadatti a vivere in modo indipendente. Che tristezza”.

Ebbene, questa annotazione finale, relativa al fenomeno – da me spesso constatato – di un tentativo, a volte perfino inconscio, delle famiglie di segnalare soprattutto la gravità dell’handicap dei propri figli, ha suscitato il fastidio dispiaciuto di alcune mamme, particolarmente impegnate nella difesa dei diritti dei loro figli. Immagino che si tratti di un equivoco, ossia queste donne in gambissima hanno personalizzato questa mia affermazione, pensando fosse riferibile anche al loro comportamento. Non era così, ovviamente. Ma a maggior ragione credo sia giusto far luce su questo fenomeno pericoloso, insidioso, scivoloso.

Nella continua caccia all’abuso, per ridurre la spesa destinata alle persone invalide, si costringe la gente a puntare sulla gravità a ogni costo, a ridurre perfino la speranza o la possibilità di un miglioramento, di un progetto individuale, di una possibilità di vita dignitosa e indipendente. Si scatena e si allarga una guerra tra poveri. Si guardano di traverso quei disabili che sono chiaramente autosufficienti, magari lavorano, si fanno una famiglia, guidano la macchina, fanno sacrifici ma riescono a vivere. Eppure sono sicuramente persone con disabilità, e hanno diritto, sacrosanto, a una serie di servizi capaci di incentivare la loro inclusione sociale.

Se il nostro welfare decide invece di concentrarsi solo sulla situazione di assoluta gravità – e questo pensiero si va facendo strada con forza anche nel mondo delle associazioni e delle famiglie – si capisce bene che abbiamo vanificato qualche decina d’anni di battaglie normative e sociali per la pari dignità delle persone con disabilità. Certo, una gradazione degli interventi di sostegno economico è doverosa, ma non togliendo quello che sinora è stato correttamente garantito. Casomai si devono definire strumenti nuovi e più adeguati di sostegno alla famiglia che si prende cura di una persona non autosufficiente, alleggerendo il carico di responsabilità dei genitori.

E invece la “forza di gravità” ci spinge tutti verso il basso. E qui di ironia ce n’è davvero poca.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.