Sono a tavola e il Telegiornale mi racconta (a modo suo) la protesta dei Forconi: blocco dei trasporti, traffico in tilt, guerriglia a Torino, binari occupati a Genova.
“L’Italia rischia la paralisi”, asserisce il giornalista, con un tono che tracima nel solito allarmismo.
Io e la mia testa accompagniamo le immagini ora annuendo (quando i poliziotti si tolgono il casco) ora dissentendo (quando si fa accenno alle bombe-carta e ad atti di violenza).
“A me i Forconi fanno simpatia” sussurro, anzi lo dico a voce alta perché io, intanto, la benzina, l’ho fatta.
Calcolo in pochi secondi quanti km potrò percorrere, nel tempo che il Tg ci indica come contenitore di questa protesta, poi sorrido (“Ho il benzinaio sotto casa, al massimo tra due giorni la rifaccio!”).
Lo schermo vomita altre scene di disordini. Ne vengo rapita, mentre afferro la forchetta come fosse una ruspa e me la porto dritta verso la bocca.
“Perché protestiamo?” chiede retoricamente Mariano Ferro, leader dei Forconi, al cronista che lo incalza.
Mentre chiosa con “Ma dove vivete?” io mi sono già precipitata in cucina, ho inserito la testa nel frigorifero, come un segugio ho annusato la data di scadenza delle poche cose rimaste e ho gridato: “DEVO FARE LA SPESA!”.
Torno a tavola. Riafferro la forchetta e termino la cena mentre ripasso velocemente la lista di ciò che dovrò assolutamente acquistare domani.
Penso a quante scatole di pasta potrò inserire nell’auto insieme ai pelati, al detersivo, al formaggio, alle scatolette per il gatto, al caffè e a tutte le cose che non ci sono più o che non potranno bastare (vista la determinazione di Ferro esplicitata con quel suo “Ma dove vivete?”).
Poi la mia mente viaggia, su una mia personalissima Google Maps, verso il Supermercato più vicino, superando la Metro perché troppo lontana (“La tangenziale? Meglio di no!”).
E mentre mi perdo nelle etichette della mia, ormai vitale, scorta e continuo a sfrecciare nelle strade che mi terranno lontana dal Fermo, penso che anch’io sono “bloccata”.
Sono anch’io vittima di una terribile paralisi.
Ma dove vivo? La domanda di Ferro era rivolta anche a me solo che io non ho saputo rispondere.
La verità è che non lo so più “dove vivo” e sicuramente il leader della protesta se n’è accorto altrimenti mi avrebbe detto sottovoce: “Tu non c’entri, Elena. Finisci pure di cenare”.
Anch’io partecipo solo quando il partecipare non mi toglie nulla.
Anch’io mi indigno solo quando l’indignazione non scalfisce la mia comodità pusillanime.
Guardo la forchetta che giace inerme sul piatto e penso che se si trasformasse in un Forcone lo utilizzerei solo per infilzare un immenso quantitativo di cibo.
Non è possibile.
Io?
Sì.
Sono uguale a tutti coloro che oggi si sono lamentati per il ritardo, per aver dovuto cambiare strada, per non aver potuto accompagnare i figli a scuola o arrivare puntuali ad un appuntamento.
Quindi devo scendere in Piazza.
Ma no. Non nella Piazza dove sfilano i manifestanti.
Nella mia, quella in cui credo di capire e condividere ma in cui sono sola. Non è una fuga ma un viaggio necessario.
Devo rientrare nel mio piccolo cortile e rimettere ordine, protestando contro il mio Parlamento.
E’ illegittimo, incostituzionale e qui il Porcellum non c’entra.
Il mio Governo mi governa male e deve cadere.
Ho inserito senza volerlo la mia modalità predefinita naturale: sto affrontando le parti caotiche o presunte tali della mia quotidianità in base all’idea che sono io il centro del mondo e che sono i miei bisogni immediati a stabilire le priorità.
Eppure pensavo ormai di riuscire a vedere ciò che sta fuori.
Come mi sbagliavo…
La conoscete la storia dei due giovani pesci che nuotano nell’acqua? Un pesce anziano li saluta e chiede loro: “Com’è l’acqua?”.
Loro continuano a nuotare, lo guardano un po’ stupiti e uno chiede all’altro: ” Che cavolo è l’acqua?”.
E’ l’incipit di un magnifico racconto di uno dei miei autori preferiti: David Foster Wallace.
Stasera lo rileggerò ripetendomi all’infinito: “Questa è l’acqua!”
Domani magari dirò: “Questi sono i Forconi!”.
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