Welfare

Fontana (Libera): Lo Stato non venda i beni, li dia a imprese sociali

Intervista al neodirettore dell'associazione contro le mafie: "Si segua l'esempio delle strutture confiscate, in cui nascono realtà solide che danno lavoro e servizi di welfare. E l'Agenzia governativa abbia più poteri". Sul fronte No Slot, "noi siamo in prima linea, la politica deve approvare al più presto norme per arginare l'azzardo"

di Daniele Biella

Enrico Fontana, 55 anni, sposato e padre di un figlio di 24 anni e una figlia di 17, è dal 1 ottobre 2013 il nuovo direttore di Libera, la rete di ‘Associazioni, nomi e numeri contro le mafie’ (almeno 1600 le organizzazioni coinvolte) nata nel 1995 e presieduta da don Luigi Ciotti. Un nuovo ruolo per una persona già da decenni impegnata su più fronti di impegno e impresa sociale: già responsabile dell’Osservatorio legalità di Legambiente (per anni redattore del rapporto annuale sulle Ecomafie, oggi rimane nel direttivo nazionale dell’associazione) e presidente del consorzio Libera terra Mediterraneo, è stato a metà anni 2000 vicepresidente di Libera stessa, oltre ad aver diretto, come giornalista, la testata Paese sera.

Libera è oggi una realtà consolidata in Italia, in che settori è pronta a rilanciarsi?
Sono quattro i grandi temi su cui fare prima possibile ulteriori passi concreti, dopo la straordinaria e tumultuosa crescita che la rete di cui ora sono coordinatore ha compiuto negli ultimi anni. Si parte naturalmente sull’immensa opportunità offerta dai beni e dalle imprese confiscati alle mafie. Se all’inizio l’impegno delle nostre cooperative è sempre stato sul versante dei terreni agricoli, ora abbiamo e avremo sempre più a che fare con strutture di tipo diverso, dove impostare politiche di welfare legate, per esempio, a settori di cui già stiamo promuovendo le prime esperienze, come l’accoglienza di persone fragili e minori in difficoltà, nonché progetti di housing sociale. Oltre a ciò, sono sempre di più le imprese confiscate, e in questo caso si pone il problema urgente di garantire il posto a chi lavorava nelle aziende in questione, evitando il fallimento: una recente proposta di legge appoggiata dalla Cgil va in tal senso, la nostra speranza è che arrivi al più presto all’approvazione. C’è un altro aspetto, però, che va affrontato subito quando si parla di beni confiscati: l’attuale difficoltà di operato dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Servono più strumenti e un aumento del personale, oggi inadeguati e ancora di più per il futuro, dato che il numero degli immobili sequestrati è in aumento così come si sta riducendo il tempo che passa dalla confisca alla destinazione agli enti locali, passato da una media di otto anni d’attesa a non più di tre, in alcuni casi. Un’idea per ampliare l’orizzonte di manovra dell’Agenzia, attualmente di competenza del ministero dell’Interno, è che passi alla presidenza del Consiglio.

Quanti sono i beni confiscati oggi?
I dati ufficiali di inizio 2013 parlano di quasi 13mila strutture, divise in 11238 immobili e 1708 aziende. Di queste, 5859 sono state già consegnate dagli enti locali o dalle forze dell’ordine a realtà associative, mentre 3995 sono state confiscate ma a oggi non ancora destinate.  

Quali altre priorità?
La memoria delle vittime di mafia e il supporto ai familiari, così cme ai testimoni di giustizia, rimane un’altra grande nostra battaglia da continuare e migliorare sempre di più, dando loro sempre più voce nel pretende giustizia nei molti casi in cui non ce ne sia. Vogliamo andare sempre di più verso una vera e propria antimafia sociale, formata da tutti noi cittadini, anche chi non è stato direttamente coinvolto: i recenti, partecipatissimi funerali di Lea Garofalo a Milano sono il segno che alle persone sta molto a cuore il tema, e a noi con loro. Ancora, un altro settore in cui vogliamo ampliare il nostro intervento, comunque già importante, sono le scuole: oggi interveniamo in 4mila istituti superiori e 66 università, ma si può fare ancora di più. Infine, il quarto campo d’azione è la lotta alla povertà materiale e culturale: proprio nei giorni scorsi, il 17 ottobre, Libera ha lanciato la campagna Miseria ladra, promossa dal Gruppo Abele e condivisa da almeno 250 altre associazioni.

Libera aderisce al movimento No Slot contro il gioco d’azzardo. Quali luci e ombre?
Le luci sono legate al fatto che oggi, finalmente, c’è piena consapevolezza della pericolosità del fenomeno. Sembra incredibile, ma fino a pochi anni fa, quando denunciavamo l’aumento delle ludopatie (la dipendenza dal gioco d’azzardo, ndr) in pochi ci ascoltavano, oggi il problema è all’ordine del giorno, e molto positive sono soprattutto le buone pratiche a livello territoriale, dove sono in forte aumento gli esercizi commerciali che diventano No slot, così come gli enti locali che legiferano in tal senso. Di certo serve però un cambio di passo anche da parte della politica nazionale, ovvero nuove norme che contrastino in modo efficace l’azzardo e il giro di denaro che ci sta dietro, spesso terreno fertile per le mafie. Così come servono nuove leggi per altri temi oggi prioritari, come la lotta alla corruzione, al voto di scambio, all’usura, tutti motori di impoverimento sociale.

Qual è il settore che più di ogni altro lo Stato dovrebbe rilanciare oggi?
L’impresa sociale. Faccio l’esempio della realtà a me più vicina, ovvero il Consorzio di coop sociali e associazioni Libera terra Mediterraneo, di cui sono presidente: lavorando sui terreni confiscati alle mafie, garantiamo oggi uno stipendio diretto a 150 dipendenti, con un indotto che arriva a mille persone. Con una crescita annua del 24% e un fatturato 2012 di 5,4 milioni di euro, siamo in assoluta controtendenza rispetto all’attuale grave crisi. Un successo che si basa soprattutto sulla creazione di legami con il territorio, altro che isole felici a sé stanti: dove siamo presenti stringiamo convenzioni e protocolli con le realtà territoriali, creando vere e proprie zone liberate dalle mafie e generando un processo straordinario di legalità che conviene anche dal punto di vista economico. Per questo lanciamo una proposta alla politica: invece di vendere i beni immobili, come si continua a dire, venga attuata davvero la legge 109 del 1996, destinando i beni confiscati alle politiche del welfare e affidandoli ad associazioni e cooperative sociali. Coinvolgere le imprese sociali significa in un colpo solo dare risposte positive in termini di occupazione, inserimento sociale di categorie svantaggiate e qualità dei prodotti? È una strada che porta lontano, è ora di intraprenderla.

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