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Fondo UE per l’Africa: le ONG al palo?

1,8 miliardi di euro. Il Fondo fiduciario d’emergenza per l'Africa istituito dall’Unione Europea al Summit di La Valletta in novembre 2015 per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare sul continente africano fa gola a tutti. Ma rimangono molte questioni aperte, sia di forma che di sostanza. Una su tutte: l’accesso ai fondi messi a disposizione da Commissione UE e Stati Membri.

di Joshua Massarenti

Un miliardo ottocento ottantotto milioni e settecento mila euro, più 39 centesimi. Neanche i centesimi l’Unione Europea si lascia sfuggire quando nel corso di una sessione d’informazione organizzata dalla Commisione europea a Bruxelles dieci giorni fa, è stato presentato il “Fondo fiduciario d'emergenza dell'Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa".

Il primo ad averlo menzionato sarebbe stato il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker nel settembre 2015, per dare una risposta all’emergenza migranti provenienti dall’Africa. Lanciato ufficialmente nel novembre 2015 durante il Summit UE-Africa, il Fondo – ricorda la Commissione UE – “contribuirà a fronteggiare le crisi che affligono le regioni del Sahel e del Lago Ciad, nonché il Corno d’Africa e il Maghreb, aiutando a promuovere la stabilità in queste regioni e ad una migliore gestione delle migrazioni. In particolare, consentirà di affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati delle popolazioni e delle migrazione illegale, incoraggiando le opportunità economiche, la sicurezza e lo sviluppo”. Sul fronte finanziario, i responsabili della stessa Commissione martellanno sul fatto che il Trust Fund for Africa è un fondo limitato nel tempo (cinque anni) e complementare ad altri programmi e fondi già esistenti a sostegno dei paesi in via di sviluppo, in questo caso l’Africa.

Al di là delle intenzioni e delle presentazioni in powerpoint, i sentimenti che hanno accompagnato il lancio di questo Fondo fiduciario sono contrastanti. Sul fronte istituzionale, i principali leader europei giurano al pari di Juncker, che questa iniziativa “dimostra ancora una volta l'impegno dell'UE di rispondere rapidamente alle grandi sfide che dobbiamo affrontare nella regione. Per avere successo, abbiamo bisogno di lavorare insieme con gli altri paesi europei e dei nostri paesi partner in Africa”.

Al di là delle intenzioni e delle presentazioni in powerpoint, i sentimenti che hanno accompagnato il lancio di questo Fondo fiduciario sono contrastanti.

Tra Turchia e Africa, non c'è partita

Ma come aveva evidenziato Vita.it in un’inchiesta pubblicata alla vigilia del Summit di La Valletta, il dialogo con gli africani per la creazione del Fondo Fiduciario non era andato del tutto liscio. Un altro scoglio riguarda il budget globale assegnato al Fondo: 1,8 miliardi di euro sembrano un’enormità. Ma è bene ricordare che la torta messa a disposizione dalla Commissione europea (1,8 miliardi) e dagli Stati membri (quasi 89 milioni di euro, di cui 10 milioni dall’Italia) andrà suddivisa in ben 23 paesi africani (più eventualmente quelli a loro frontalieri) da qui al 2020. Comparato ai 3 miliardi di euro l’anno proposti dall’UE alla Turchia per gestire l'arrivo di migliaia di immigrati dal Vicino Oriente, è poco, molto poco. In un’ipotesi virtuale, significa che in ognuno dei 23 paesi africani verrebbe erogato fondi annui pari a 16,4 milioni di euro, poco più di un millioncino al mese, 250 volte meno rispetto alla Turchia. Un problema che Stati Membri come l’Italia hanno ben presente. In un’intervista che verrà pubblicata nel prossimo numero di Vita (in uscita a inizio marzo), il vice ministro degli Esteri con delega alla cooperazione internazionale, Mario Giro, sostiene che “l’Italia si batte per un maggiore equilibrio. Siamo ovvviamente consci che i turchi vanno aiutati perché confrontati ad un’emergenza assoluta, ma non possiamo chiudere gli occhi sui flussi che arrivano da Sud”.

L’Italia si batte per un maggiore equilibrio. Siamo ovvviamente consci che i turchi vanno aiutati perché confrontati ad un’emergenza assoluta, ma non possiamo chiudere gli occhi sui flussi che arrivano da Sud

Mario Giro, vice ministro degli Esteri con delega alla cooperazione internazionale

Sviluppo vs. sicurezza

C’è poi un terzo interrogativo: il binomio sicurezza-sviluppo. Tutti gli attori coinvolti nella cooperazione internazionale e nelle politiche di sicurezza riconoscono che non ci può essere sviluppo senza sicurezza, così come l’assenza di sicurezza minaccia la stabilità dei paesi africani, e quindi il loro sviluppo. Un concetto ribadito nel corso di un recente Forum sul jihadismo in Africa – il Marrakech Security Forum – organizzato dal Centro marocchino per gli studi strategici (CMES). “I traffici di droga e di armi seguono stesse rotte dei traffici di esseri umani di cui sono vittime i migranti africani che vogliono approdare in Europa”, assicura a Vita.it il direttore dello CMES, Mohammed Benhamou. “Per contrastare tutti questi fenomeni, è necessario aumentare gli aiuti allo sviluppo e la sicurezza in Africa. Non vedo alternative possibili”.

Ma su sicurezza e sviluppo, le organizzazioni della società civile invitano a non mescolare le carte. “C’è il timore che parte dei fondi destinati alle cause profonde – tra cui la povertà – che spingono migliaia di africani a rischiare la vita nel Sahel per arrivare in Europa, possano essere utilizzati per implementare misure di sicurezza come i controlli alle frontiere”, sostiene Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia. Ma alla Commissione europea, varie fonti contattate da Vita.it smentiscono questo rischio: “il Fondo ha un approccio olistico dei fenomeni migratori, andare alla radice del problema significa lottare contro la povertà, creare posti di lavoro, rafforzare la governance e le istituzioni dei paesi africani. La sicurezza non ha il sopravvento”.

Priorità dell'EUTrust Fund for Africa e processi decisionali

Il Fondo fiduciario per l’Africa ha ufficialmente cinque priorità: lo sviluppo economico e la creazione di lavoro; il supporto ai servizi di base per rafforzare la resilienza delle popolazioni locali; rendere più efficace la gestione dei flussi migratori; rafforzare la governance, anche in ambito sicurezza; e raccogliere dati scientifici sulle cause della migrazione irregolare.

Il processo decisionale si svolge sostanzialmente su due livelli: il Board (o “Consiglio di amministrazione), composto dalla Commissione europea e dagli Stati membri che finanziano il Fondo, approva le linee politiche, mentre il Comitato operativo (Operational Committee), dove siedono la Commissione UE, gli Stati membri, alcuni paesi e organizzazioni regionali africani, ha potere decisionale sui metodi operativi del fondo e i progetti che vanno finanziati. Chi decide con un diritto di voto sono la Commissione UE e gli Stati membri che hanno dato – ognuno di loro – un contributo superiore ai 3 milioni di euro al Trust Fund. Dei negoziati sarebbero in corso per far entrare gli Stati Uniti, il Giappone e il Canada, che hanno espresso un interesse al Trust Fund.

Ma l’erogazione dei fondi varia a seconda della dimensione dei progetti: su quelli di livello nazionale (ad esempio in Etiopia), ad avere un peso decisivo sono le delegazioni europee presenti nei paesi africani; sui progetti di dimensione regionale o che coinvolgono pù paesi, la decisione viene presa a Bruxelles. Ovviamente, non si possono escludere i governi africani coinvolti nel Trust Fund, chiamati a dare il loro parere sull’implementazione del Fondo, anche se i contorni non sono del tutto chiari. Sempre sul piano operativo, ognuna delle tre aree geografiche (o "finestre") del Trust Fund fa capo a “un manager” (della Commissione UE) che screma i progetti ricevuti per sottoporli al Comitato operativo per approvazione finale, il tutto in linea con la strategia politica decisa al Consiglio di amministrazione.

Come si evince dall'organigramma che vi segnaliamo in questo articolo (vedi in fondo al testo tra gli allegati), a coordinare il programma Sahel/Lago Ciad è l'italiana Carla Montesi, in collaborazione con il manager di questa finistra Roland Sourd.

Le ONG escluse de facto?

Ma siccome alla Commissione europea si sostiene che le risorse umane non sono sufficienti, quanto meno nelle Direzioni generali coinvolte nel Trust Fund (come ad esempio quella Sviluppo), a Bruxelles si fa di tutto per scongiurare il rischio di ricevere tonnellate di progetti. Risultato: le ONG sono de facto escluse dalla possibilità di sottoporre progetti direttamente alla Commissione UE.

Ci dispiace, ma i vostri progetti a Bruxelles non verrano presi in considerazioni. Al massimo mandateci dei suggerimenti, senza loghi, né carta intestata. Al massimo, saremo noi a sollecitarvi in caso di bisogno.

Funzionario della Commissione europea

Durante la sessione d’informazione del 17 febbraio scorso, il messaggio della Commissione era molto chiaro: “ci dispiace, ma i vostri progetti a Bruxelles non verrano presi in considerazioni. Al massimo mandateci dei suggerimenti, senza loghi, né carta intestata. Al massimo, saremo noi a sollecitarvi in caso di bisogno”. Di fatti, sui 354 milioni di euro di finanziamenti sinora approvati (253 per il Corno d’Africa e 101 per il Sahel), soltanto una ONG (la francese Acted con un progetto di 1,1 milione di euro in Mali) è riuscita ad ottenere un finanziamento. A spartirsi la torta sono per ora gli Stati Membri e le loro agenzie di sviluppo, e organizzazoni internazionali come l’OIM e la Croce Rossa internazionale.

Durante la sessione d’informazione, i responsabili delle ONG europee erano sommersi dai dubbi. “Ma come, che ci siamo venuti a fare se non ci consentite di accedere ai fondi?”; “sulle procedure non ci si capisce nulla. Qui a Bruxelles ci dite che non possiamo sottoporre progetti e che in sostanza non ci saranno bandi organizzati dalla capitale europea; ma nelle delegazioni UE nei paesi africani ci dicono di sì”; “in Mali, i progetti sarebbero già stati approvati!”. Messa alle strette dai partecipanti, la Commissione europea ha dovuto riconoscere che “visto la rapidità con la quale il Fondo è stato istituito, cosa mai vista in passato, le procedure non sono ancora del tutto definite”.

Alternative risicate a breve termine

Da quanto si capisce, le ONG potranno accedere ai fondi in due modi: via i bandi organizzati dalla Delegazioni europee nei paesi africani, a cui naturalmente partecipano anche ong o associazioni africane (anzi, le partnership con strutture africane potrebbero essere privilegiate); oppure attraverso gli Stati Membri, che spesso si appoggiano alle loro agenzie (GIZ per la Germania), le quali a loro volta possono fare appello alle ONG per implementare i loro progetti. Per ora, le delegazioni europee molteplicano le sessioni informative, ma di gare d’appalto non se ne vede l’ombra, o quasi.

Per le ONG italiane, una prima opportunità ci sarebbe: la Commissione UE ha firmato nel dicembre scorso con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI) un accordo a sostegno di un progetto pari a 20 milioni di euro denominato "Since" ("Stemming irregular migration in Northern and Central Ethiopia"), che mira a creare condizioni favorevoli per lo sviluppo socio-economico e l'occupazione in quattro regioni dell'Etiopia, dove è alta l'incidenza del fenomeno migratorio.

A questo punto, un paio di domande sorgono spuntanee: ma se una ONG italiana non ha mai implementato un progetto in Etiopia, ma bensì in altri paesi africani, che chance ha di ottenere un finanziamento nell’ambito del progetto “Since”? Che opportunità e alternative reali sussistono per una ONG, anche operativa in Etiopia, le cui attività non rientrano negli obiettivi fissati nell’accordo fimato dal MAECI con la Commissione UE?

Sul Trust Fund, un timore sta prevalendo tra le organizzazioni della società civile: quello di dover aspettare Godot.

Foto: Getty Images

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