Non profit

Fondo Repubblica Digitale, la road map della valutazione d’impatto

Esattamente un anno fa nasceva il Fondo per la Repubblica Digitale. Sono 318 i progetti arrivati in risposta ai primi due bandi. Come verranno selezionati? Quando partiranno? E su cosa si concentrerà la valutazione d'impatto? Le risposte del direttore generale Giorgio Righetti e della presidente del comitato scientifico indipendente Raffaella Sadun

di Sara De Carli

È passato giusto un anno da quando, con la firma del Protocollo d’Intesa tra Governo ed Acri, è nato il Fondo per la Repubblica Digitale. Si tratta di una partnership innovativa tra pubblico e privato sociale, sul modello già sperimentato con successo dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile: il Fondo per la Repubblica Digitale metterà a disposizione 350 milioni di euro in cinque anni, versamenti effettuati dalle fondazioni di origine bancaria a cui è riconosciuto un credito d’imposta. Il Fondo sosterrà progetti per aumentare le competenze digitali delle persone, accompagnare la transizione digitale del Paese e diminuire il digital divide. I primi due bandi pubblicati, Futura e Onlife, mirano alla formazione digitale di due target ben precisi, individuati come strategici: donne e Neet. Le proposte progettuali pervenute sono 318 e in queste settimane è in corso la valutazione per una “fase due”. Attraverso la valutazione d’impatto dei progetti sostenuti, poi, il Fondo selezionerà i più efficaci tenendo presente la scalabilità dell’azione sul territorio nazionale: saranno questi i progetti che la sperimentazione entro il 2026 consegnerà ai policy makers perché li trasformino in policy universali.

L’avvio dei progetti avverrà quindi in primavera, in un 2023 che – ricordiamolo – è l’Anno europeo delle competenze: «La transizione digitale sta aprendo nuove opportunità per i cittadini e l’economia dell’Ue. Disporre delle competenze adatte mette i cittadini in grado di affrontare con successo i cambiamenti del mercato del lavoro e di prendere pienamente parte alla società e alla democrazia», ha detto la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’Italia è indietro: il 46% della popolazione ha competenze digitali almeno di base, a fronte di una media Ue che raggiunge invece il 54%.

Giorgio Righetti è direttore generale di Acri, nonché del Fondo per la Repubblica Digitale. Nel video che presenta il Fondo, la parola che lui sceglie per sintetizzarne le finalità è “inclusione”. «Aumentare le competenze digitali delle persone significa a livello individuale aumentare le possibilità di inserimento lavorativo e a livello di sistema paese diventare più competitivi. Ne conseguono due corollari: primo, per individuare le prassi e le metodologie più efficaci ho bisogno di sperimentare, di fare un’azione di scouting e di ricerca; secondo per capire cosa funziona e cosa non funziona devo valutare. Il tutto si tiene assieme: l’obiettivo strategico, la ricerca di prassi migliori e la valutazione», afferma.

Righetti spiega le fasi del processo di valutazione in corso: «I primi due bandi hanno avuto una buona risposta e le proposte progettuali sono in fase di valutazione di ammissibilità. La valutazione delle proposte è fatta dagli uffici del soggetto attuatore e da 12 esperti indipendenti. Ogni progetto infatti sarà valutato anche in maniera individuale da tre esperti, poi si uniranno le valutazioni e si stilerà una graduatoria. A questo punto ci sarà una seconda fase, cui accederà un numero limitato di progetti, con un duplice scopo: mettere a punto eventuali migliorie ai progetti e verificare che si possa fare valutazione d’impatto. La valutazione d’impatto sarà controfattuale e quindi richiede determinate condizioni fin dalla partenza. Ci sarà una seconda graduatoria e a quel punto i progetti verranno finanziati in funzione delle risorse disponibili». Quando? «L’obiettivo è di assegnare i contributi entro marzo», risponde Righetti. Quanti? «Io parto dalle risorse, 13 milioni per i due bandi, diciamo mediamente mezzo milione a progetto… Significa che ammetteremo alla seconda fase una quarantina di progetti e che alla fine ne finanzieremo più o meno 26, circa il 10% di quelli che sono stati inviati. Dispiace, ma il bando è uno strumento che ha proprio questo obiettivo, stimolare l’emersione delle proposte. E quel lavoro di progettazione non è mai “buttato”, perché resta nel bagaglio di chi si è messo in gioco».

Raffaella Sadun insegna Business Administration in the Strategy Unit alla Harvard Business School ed è la presidente del comitato scientifico indipendente del Fondo per la Repubblica Digitale. Quando parla della centralità della valutazione dell’impatto dei fondi che verranno erogati è molto chiara: «Il Comitato Scientifico supporterà il Fondo per cercare di capire l'impatto causale dei corsi che verranno finanziati non solo sull’apprendimento delle competenze digitali ma anche sulle prospettive lavorative dei partecipanti. Cercheremo di imparare cosa funziona e cosa no e nel fare questo formeremo una nuova generazione di ricercatori italiani interessati a imparare come valutare le politiche pubbliche».

La valutazione d’impatto – spiega Sadun – «ha l'obiettivo di capire quali progetti hanno un rapporto costi/benefici interessante per il decisore pubblico. Per poterlo fare, occorre fare una valutazione rigorosa e omogenea, per esempio che permetta di fare confronti su iniziative diverse proposte alle stesse fasce demografiche e questo è il motivo per cui i bandi si rivolgono a una fascia demografica precisa».

Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile è stato non solo la prima volta di una partnership così strutturata tra pubblico e privato sociale, ma anche la prima volta della valutazione d’impatto in un contesto di questa portata. Rispetto a quel Fondo, «abbiamo provato a dotarci di un modello diverso, centralizzando la valutazione», racconta la professoressa. In sostanza al fianco del Comitato scientifico indipendente che imposta la valutazione d'impatto è stato messo in piedi un Evaluation Lab, coordinato da Gianfranco De Simone: un team di giovani – sono 4 in questo momento ma l’idea è di arrivare a 10 – interessati a imparare a fare valutazione d’impatto delle politiche pubbliche. «Questo con tre obiettivi: togliere il peso della valutazione d’impatto a chi fa il progetto; aumentare l’obiettività, con una omogeneità di approccio; creare una coorte di persone formate da esperti di valutazione d'impatto a livello internazionale, per creare competenze che restano».

L’intenzione di valutare i progetti non solo sulle competenze ma anche sull'occupazione è interessante: «La formazione può essere fatta in tanti modi, siamo interessati all'acquisizione di competenze però l’obiettivo ultimo è fare in modo che le persone vedano un riscontro reale nella vita, che riescano a trovare lavoro e ad inserirsi in modo continuativo nel mondo del lavoro. È importante perché cambia un po’ la barra di quel che ci aspettiamo dai formatori: non solo formazione tecnica ma anche soft skills, aiutare le persone a presentarsi sul mondo del lavoro. Sappiamo di chiedere molto», afferma Sadun. Altro snodo cruciale è quello della scalabilità: «Ci sono progetti bellissimi, che sono piccoli gioielli e si può imparare molto anche da questi, però se le esperienze di punta non sono scalabili torniamo al problema della scarsità delle risorse. A volte invece i risultati sono straordinari ma non tanto per l’effetto del trattamento quanto per la selezione delle persone che hanno partecipato. Non è una “punizione” verso progetti validi ma che funzionano solo su scala piccola, importante è capire l'obiettivo: per esempio è importante, grazie alla valutazione, capire che alcuni progetti sono efficaci solo su una certa fascia demografica e non su un’altra».

E allora, anche in vista dei prossimi bandi che arriveranno, che cosa devono sapere le organizzazioni? «Due cose», risponde la professoressa. «La prima è entrare fin dall’inizio nell'ottica di un progetto sapendo che questo verrà valutato: questo implica che ci sarà necessità di raccogliere dati su individui in modo longitudinale, che bisognerà creare un gruppo di controllo e uno di trattamento, ci sono aspetti di roll out che non sono tipici. Ma ancora più importante è il mindset: chi si propone non deve aver paura della valutazione, non è qualcosa di punitivo ma semplicemente voglia di capire. Serve mettersi in un’ottica di partnership, di lungo periodo. A frenare l’evidence based, anche nelle aziende, è il timore che i dati vengano usati contro le persone. Invece dati hanno funzione di conoscenza, ne abbiamo veramente bisogno».

Foto di Conny Schneider su Unsplash

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