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Fondazione Grassi, Mainini: «Curarsi a casa è un bene, sulla riforma giudizio sospeso»

Tra pochi giorni in Lombardia entrerà in vigore la delibera che promette di rivoluzionare l’assistenza domiciliare. Ne parliamo con uno dei medici che ha visto nascere questo servizio lavorando per più di vent’anni come direttore sanitario con l’ente che oggi assiste 2.500 persone all’anno nel milanese

di Nicola Varcasia

Le cure domiciliari sono al centro delle agende di governo nazionali e regionali. Le reti tra pazienti, famiglie e medicina territoriale vengono indicate come la vera sfida per salvare il sistema sanitario nazionale. La fondazione Maddalena Grassi se ne occupa da 30 anni, quando l’assistenza domiciliare era agli albori, principalmente nel campo delle cure palliative per i malati oncologici. Da un inizio puramente caritatevole, nato dal desiderio di continuare ad assistere a domicilio le persone dimesse dall’ospedale perché bisognose di cure, è nata un’opera che oggi eroga centomila ore di assistenza domiciliare nella zona Milano metropolitana, seguendo 2.500 persone nell’arco di un anno. Di questa sfida si parlerà il 28 marzo al Centro culturale di Milano nell’incontro, promosso proprio dalla Maddalena Grassi, dal titolo: “Professione e passione. Cura: quale integrazione tra territorio e domicilio?”. Con Angelo Mainini, medico fisiatra, a lungo direttore sanitario della fondazione, cerchiamo di capire a che punto è la situazione proprio quando sta per entrare in vigore la nuova delibera della regione Lombardia che ha modificato profondamente l’organizzazione dei servizi dell’Assistenza domiciliare integrata (Adi) diventate “Cure domiciliari”. Al di là degli acronimi, bisognerà familiarizzare anche con le Case della comunità (Cdc) e con la Centrale operativa territoriale (Cot), il punto di partenza è la convinzione che «poter curare le persone a casa, fin quando è possibile, è un bene da riconoscere e ampliare perché la casa è il luogo dove ciascuno di noi sta meglio, a maggior ragione quando sopravvengono problemi di salute».

Dottor Mainini, chiariamo i termini, territorio e domicilio.

Il concetto di territorio è vasto e comprende i servizi e le strutture non ospedaliere, dall’ambulatorio del medico di base, ai centri riabilitativi fino alle residenze per anziani. Il domicilio è qualcosa di più particolare, che inverte la direzione della cura.

In che senso?

Il grosso dell’attività sanitaria prevede in genere che l’utente si sposti dove può ricevere le cure. Col domicilio, la questione si inverte: ed è diverso se un malato va nello studio del dottore o se è lui ad andare a casa sua, in un ambiente dove non è il padrone di casa e, come ha detto un nostro operatore, si entra in punta di piedi. Intorno al malato c’è la sua vita, i suoi problemi e la sua quotidianità.

Il Pnrr ha stanziato fondi importanti per l’assistenza domiciliare e sul territorio per gli over 65, con l’obiettivo di raggiungere il 10% della popolazione assistita in pochi anni: è un obiettivo corretto?

In Italia, ma anche in altri paesi, siamo ancora al di sotto di questa asticella, con una differenza tra regioni del sud e del nord, dove siamo un po’ più avanti. È quindi una questione importante, ma non l’unica. Non tutti gli over 65 sono uguali: c’è la persona anziana perfettamente abile, che riesce ad andare dal medico o dal fisioterapista nonostante abbia patologie importanti. Ma ci sono adulti, minori e bambini che richiedono l’intervento giornaliero o pluri giornaliero di diverse figure professionali. Sono soggetti che per spostarsi hanno magari bisogno dell’ambulanza, con costi molto alti.

Come dunque integrare con efficacia domicilio e territorio?

Bisogna capire che non basta costruire sul territorio nuove strutture capaci di accogliere i malati fuori dall’ospedale. Intendiamoci, le Case della comunità o i Centri operativi territoriali, pensati per arrivare più vicini al cittadino, sono utilissime, ma bisogna guardare anche nell’altra direzione: l’ente pubblico deve uscire da sé e andare a casa della gente, almeno per una serie di situazioni importanti che riguardano tutte le età.

Dove si può spingere la cura domiciliare?

Finora i medici specialisti previsti nel servizio “Adi” erano il fisiatra e il geriatra. Per quanto ci riguarda, avevamo già allargato questo ventaglio introducendo altre figure legate alle problematiche delle persone che incontriamo. Ad esempio, l’anestesista che va al domicilio per curare i malati di Sla.

Vi preoccupa la nuova regolamentazione?

È una riforma che ha adeguato alla normativa nazionale l’attività svolta in Lombardia attraverso il servizio Adi dandole il nome di Cure domiciliari. Su molte novità introdotte il giudizio è sospeso, ma si tratta comunque di aspetti di tipo gestionale e non di sostanza.

Qual è la ratio?

Si prevede, ma è tutto ancora da capire come, una maggior relazione tra le cure domiciliari territorio e ospedale, con la presenza di più specialisti messi a disposizione dall’ospedale. Come accennavo, finora non tutte le organizzazioni che forniscono le cure domiciliari collaboravano con specialisti quali anestesista, gastroenterologo, cardiologo, neurologo, pediatra o palliativista. In teoria, con questa nuova riforma ci dovrebbe essere un maggior rapporto con l’ospedale, con l’invio di professionisti a domicilio o, nelle situazioni in cui avrà senso farlo, con la telemedicina.

Si apre nuova frontiera?

La strada della tele assistenza consentirà di svolgere alcune visite a distanza. In certi casi è necessario che il medico sia presente, in altri ci sono strumenti tecnici che permettono di effettuare una valutazione del paziente.

Nell’incontro del 28 marzo parlerete di professione e di passione. Come l’attenzione alla cura della persona può restare centrale?

È essenziale la formazione. L’assistenza a domicilio è un lavoro sui generis, molto diverso da quello in ospedale. Se a casa bisogna prendere una decisione, non ci sono altri medici o la strumentazione del reparto per approfondire. Perciò il personale deve essere preparato e professionalmente adeguato a questo lavoro. Una vera possibilità di riforma passa anzitutto da questo punto.

Ci sono pochi operatori?

L’investimento va fatto in termini quantitativi, il problema della carenza è evidente, ma anche dal punto di vista della formazione. Non come addestramento solo tecnico, ma di formazione al significato del proprio assistere: un operatore deve poter trovare soddisfazione in quello che fa per se stesso e per la persona che cura. La passione nasce nel momento in cui un medico o un operatore sperimentano questa coincidenza. Non sempre come esito nelle cure – cosa impossibile in molti casi – ma come esperienza di reciprocità.

Foto di Georg Arthur Pflueger su Unsplash

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