Economia
FMI: Uscire dall’austerity con il welfare
L'Fmi ammette di aver gravemente sottovalutato i danni provocati dall'austerità collegata al piano di aiuti alla Grecia e diventata poi il credo di tutta la politica imposta all'Ue
di Redazione
Da qualche giorno abbiamo finalmente scoperto che il Re è nudo. Contrariamente alla nota favola di Andersen, questa volta non è il bambino a gridarlo, ma è lo stesso Re, cioè il Fondo monetario internazionale e con lui l'intera troika, completata dalla Commissione e dalla Banca centrale europea.
Nel rapporto pubblicato il 5 giugno sul Wall Street Journal, l'Fmi ammette di aver gravemente sottovalutato i danni provocati dall'austerità collegata al piano di aiuti alla Grecia e diventata poi il credo di tutta la politica imposta non solo a Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro, ma anche a Spagna e Italia, dal 2010. I tagli di bilancio imposti dall'autorità, accompagnati da un aumento delle tasse, hanno creato in modo particolare anche in Italia una gravissima situazione di disoccupazione, miseria, blocco delle imprese e sfiducia nell'azione politica di governi, peraltro eterodiretti. Ne è derivato un grave deterioramento delle istituzioni democratiche e la creazione di una continua atmosfera di paura che giustificava ogni stato d'eccezione, perché il rischio del debito eccessivo di Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia costringeva al pagamento di alti interessi sul debito, col rischio di fallimento dello Stato. Ed è in questi casi che le società democratiche danno fiducia ai tecnici delle Banche centrali e di istituzioni finanziarie, ritenuti demiurghi, poiché i problemi appaiono tecnicamente così complessi da non poterne cercare la soluzione in un voto democratico.
Naturalmente questa austerità, ammantata da moralismo, s'è rivelata sbagliata, non solo tecnicamente, con le inconfutabili critiche provenienti da premi Nobel quali Krugman, Stiglitz e Sen e da economisti come Mark Blyth e Kaushik Basu, ma anche praticamente, se si considera quello che è capitato in altri Paesi con alti livelli di debito, aumento del deficit, e tuttavia con bassi costi nel collocamento dei titoli come Stati Uniti, Giappone e Inghilterra.
Ai tentativi da parte dell'Fmi di incolpare l'Unione Europea di eccessiva lentezza nell'imporre le corrette misure alla Grecia, la Commissione ha restituito le accuse dichiarandole sbagliate e infondate. Quanto alla Bce, è anch'essa stata accusata di non essere sufficientemente attiva e legata in qualche modo al moralistico mito dell'austerità. Tuttavia, con Mario Draghi, più che con il suo predecessore Trichet, la Bce si è dimostrata pronta ad operare per la salvezza dell'euro, con gli Omt (Outright Monetary Transactions), attraverso acquisti illimitati di titoli pubblici sul secondo mercato, per i Paesi in difficoltà; dichiarazione che ebbe il vantaggio di costituire un deterrente che domò l'incombente speculazione. Ma purtroppo queste politiche hanno l'opposizione della Bundesbank e non è già il mercato a doverle giudicare, bensì la Corte Costituzionale tedesca che le ha ancora sotto esame.
Queste baruffe dimostrano nelle democrazie occidentali uno spostamento dal conflitto di interessi al conflitto di poteri, ed infine al più pericoloso di tutti che è il conflitto delle idee, quando alcune di queste vengono accettate in un'aura di arroganza e moralismo. L'idea sbagliata e pericolosa di austerity ha condotto il nostro Paese al disastro attuale, non solo con il ricorso a tecnici di governo, ma soprattutto alla sua propagazione, la quale ha origini addirittura nostrane, come documentato sia da un articolo di Krugman sul penultimo numero della New York Review of Books, sia dal libro di Blyth (Austerity, Oxford 2013), che dedica un paragrafo ai “Bocconi boys” (p. 170), con aspre critiche.
Ora, tuttavia, che il re è nudo, è forse tempo di comprendere che la soluzione ai nostri problemi non viene tanto dall'austerità, ma da una politica di welfare, in modo tale che banche, imprese e lavoratori riprendano nella crescita le loro corrette funzioni. Governo, istituzioni e burocrazia dovrebbero finalmente realizzare che la giustizia sociale non è data da una politica repressiva, che porta a disoccupazione, povertà, miseria, carceri, abbandono della cultura e dell'istruzione e di tutti gli altri diritti costituzionalmente garantiti, ma ad una ripresa del secondo principio di differenza della Teoria della giustizia di John Rawls, secondo il quale “la disuguaglianza delle aspettative è ammissibile solo se una sua diminuzione non farebbe star peggio la condizione della classe operaia”.
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