Cultura

Fisco: se l’esattore diventa vampiro a rischio il patto Stato-cittadini

A 50 anni dalla sua scomparsa ricordiamo la lezione di Ezio Vanoni: il fisco esprime il patto tra lo Stato e i cittadini. Di Marco Vitale

di Redazione

Non mi facevo troppe illusioni sul centrosinistra (per il quale ho peraltro votato) e ciò perché la questione centrale non è più di centrodestra o di centrosinistra ma è, più generale e radicale, di rapporti tra governo e cittadini, tra governo e forze produttive, di costo del governo, di funzionamento delle istituzioni, di legge elettorale. Il nostro Paese geme e soffre e miracolosamente riesce ancora, nonostante tutto, a sopravvivere e a competere. Ma la questione è grave e non è questione di centrodestra o centrosinistra. La Sicilia ha forse la finanza pubblica più sciagurata e irresponsabile del pianeta ed è di centrodestra. La Campania e la città di Napoli hanno un governo superburocratico statalista e costosissimo che soffoca ogni spinta e volontà imprenditoriale e sono di centrosinistra. Non nutrivo illusioni dunque sul centrosinistra perché vedevo che non c?era nessun reale sforzo di pensare ai problemi veri che sono quelli di diminuire il costo del governo e quindi di diminuire il peso delle tasse, sia quelle esplicite che implicite; che sono quelli di rifondare il rapporto tra governo e cittadini su un piano di fiducia e di collaborazione e non di terrorismo fiscale. È sempre più chiaro che questo grande sforzo di rifondare il rapporto Stato – cittadini richiede un approccio bipartisan, una vera e propria costituente che ridia una bussola al nostro Paese. Non mi facevo illusioni sul centrosinistra, ma certamente non mi aspettavo questa legge finanziaria «che tassa troppo, taglia poco e non riforma nulla» (Economist) né il minaccioso disegno di legge «Interventi per l?innovazione industriale » (noto anche come «Industria 2015»). Dopo la montagna di critiche che la Finanziaria ha raccolto, da destra e da sinistra, molte formulate nell?ambito della contesa politica e, dunque, di parte, ma molte formulate da centri di pensiero indipendenti, come l?Economist e come tanti studiosi italiani, ho qualche ritegno a parlarne perché mi sembra di sparare sulla Croce rossa. Intendiamoci, una manovra forte che riportasse rapidamente il deficit sotto il 3% è un fatto positivo, anzi necessario. Che si riportasse poi un certo rigore (o almeno una dichiarata volontà di rigore) nella materia tributaria dopo gli anni dei condoni a gogò, è anche un fatto positivo. Né verserò troppe lacrime sull?aumento dell?Irpef sugli scaglioni più elevati (anche se ne sono colpito). Ma gli obiettivi dichiarati della Finanziaria erano due: risanamento dei conti pubblici, contributo al rilancio della crescita e dello sviluppo economico. Il primo obiettivo è forse raggiungibile, dico forse perché la manovra è basata anche su due trucchi contabili: quello di includere tra le entrate 5 miliardi di assunzione da parte dell?Inps di un debito verso i lavoratori e di 3,3 miliardi di presunti introiti da recupero da evasione fiscale (se scrivessimo nei nostri bilanci aziendali presunte entrate di questo tipo verremmo, giustamente, arrestati). Il secondo obiettivo, quello dello sviluppo, è del tutto assente dal provvedimento, salvo per la riduzione del cuneo fiscale, provvedimento positivo e atteso da tanto tempo, che è però ampiamente bilanciata da una autentica grandinata di altri tributi e oneri di vario tipo. Ma se, come qualcuno teme, l?insieme della manovra (che è manifestamente recessiva sintetizzandosi in due cifre chiave: 5 miliardi di minori spese, 18 miliardi di maggiori entrate) ridurrà la crescita e farà salire l?evasione (due conseguenze più che verosimili), anche l?obiettivo di diminuire il deficit e soprattutto il rapporto tra debito pubblico e Pil, viene messo a rischio. Sono anche molto d?accordo con il presidente Prodi quando dice: «Il dovere di governare in questo momento non consiste nel dovere di accontentare. È il dovere di dare un indirizzo all?intero Paese». Belle e condivisibili parole! Ma è proprio questo indirizzo che manca, un discorso cioè che si rivolga all?intero Paese e non che lo laceri ulteriormente e che indichi una direzione di marcia per la rinascita. E questo non lo dico solo io ma lo dice proprio il massimo sostenitore della Finanziaria, Guglielmo Epifani, che alla domanda di Repubblica: «Ilvio Diamanti ha scritto che questa Finanziaria non ha una missione, non indica un obiettivo come fu nel 92 (evitare la bancarotta) o nel 96 (l?euro). È d?accordo?», risponde: «Sono assolutamente d?accordo e l?ho detto fin dall?inizio al tavolo di Palazzo Chigi. Manca una missione». E mi sembra che sulla stessa linea si ponga Carlo Azeglio Ciampi quando commenta: «Quello che conta, e che oggi non si vede, è un grande obiettivo, generale e condiviso che il Paese possa comprendere e che dia un senso a tutto ciò che si sta facendo». Sono convinto che sia soprattutto l?impostazione di fondo, culturale ed ideologica del provvedimento, giustamente denominato massimalista – ed io aggiungo profondamente demagogico – ed ancor più il modo con cui è stato illustrato e comunicato che hanno creato tanta giustificata preoccupazione. Quello che fa pau- ra nella Finanziaria non è tanto quello che c?è ma quello che non c?è, quello che preannuncia. Quando una persona mite e che non è cresciuta nel retrobottega di qualche partito di estrema sinistra ma ha girato il mondo, come il ministro dell?Economia in carica, di fronte a critiche forti e ragionevoli mosse da intere categorie produttive, compresi i tour operator tedeschi, dai sindaci delle maggiori città, dall?Economist, dalla grande maggioranza dei maggiori commentatori italiani, da membri importanti del Parlamento, dalla Corte dei Conti, dalla Banca d?Italia, risponde: « È una manovra straordinaria. Non capisco tutte queste critiche dei ricchi », quando questo succede vuol dire che c?è qualcosa di grosso che non funziona. Io credo che, a questo punto, come è stato scritto da uno studioso libero e di alta competenza come Luigi Cappugi, il problema diventi «ormai un problema forse più psicanalitico che politico ». Non a caso Cofferati, che ha assunto una posizione responsabile non solo in quanto sindaco ma sulla struttura generale della Finanziaria e sui suoi effetti recessivi, ha definito i discorsi fatti sul tema della ricchezza «surreali». Tre punti del provvedimento sono, se considerati insieme, la cartina al tornasole di una visione disperatamente e ottusamente statalista e antistorica:

  • l?indiscutibile aggravio dell?onere netto globale sulle imprese minori (che è stato calcolato intorno ai 10 miliardi di euro);
  • l?inaspettato scippo del Tfr che colpisce le medie imprese;
  • l?eliminazione del 5 per mille al volontariato che era poi un?applicazione del principio di sussidiarietà. E se, come sembra, alcuni di questi punti verranno corretti, ciò nulla toglie al loro valore segnaletico della cultura che li ha ispirati. Ma l?aspetto più preoccupante della vicenda è tutta la demagogia che si è fatta e si fa sul tema dell?evasione. Siamo d?accordo che l?evasione è, in Italia e soprattutto in alcune parti d?Italia, e in alcuni settori, più elevata che nella media dei Paesi con i quali ci confrontiamo. Siamo d?accordo che è un problema serio. Siamo anche d?accordo che mentre la situazione era molto migliorata nel corso degli anni 60, 70 e 80, più o meno dall?inizio degli anni 90 è incominciata a peggiorare. Ma è demagogico giustificare ogni e qualsiasi aggravio fiscale, ogni e qualsiasi manovra criticabile, facendo appello all?evasione. E quando mai l?evasione è stata curata alzando le aliquote nominali? Documentatemi un solo caso in tutta la storia finanziaria mondiale in cui ciò si sia verificato. E cosa è questa falsità che non si possono ridurre le aliquote nominali a causa del deficit? L?Inghilterra e la Svezia (e poi tanti altri Paesi) hanno drasticamente ridotto le loro proibitive imposte progressive che stavano ammazzando il paese, pur con i bilanci in deficit, nella convinzione (già illustrata da Seneca duemila anni fa) che la diminuzione delle aliquote nominali rianima l?economia, diminuisce l?evasione (che gli inglesi e gli svedesi realizzavano soprattutto andando a vivere all?estero), aumenta il Pil e aumenta il gettito effettivo. E la cosa ha funzionato. L?Italia ha avuto un solo grande ministro delle Finanze negli ultimi 50 anni, grande tecnico ma anche politico sensibile e vero uomo di Stato: Ezio Vanoni, del quale commemoriamo quest?anno il cinquantesimo della prematura scomparsa. Questo grande ministro in cinque anni, dal 1948 al 1953, ha restaurato l?erario devastato dalla guerra, ha guidato gli italiani a sottomettersi alla disciplina della dichiarazione annuale dei redditi, ha raddoppiato il gettito delle imposte sul reddito portato dai 65 miliardi di lire del 48 ai 135 miliardi di lire del 52-53; arrivò a coprire con le imposte l?80% della spesa pubblica. E tutto questo con una costante riduzione delle aliquote. Ma lasciamo parlare direttamente Vanoni: «Considerate che questo sforzo è stato realizzato attraverso, prevalentemente, un?impostazione che diceva: riduciamo le aliquote dei tributi se vogliamo avere un maggiore gettito di imposte; in questa frase è la sintesi di tutta la politica che è stata condotta in questi cinque anni. (…) Le leggi che portano aliquote troppo elevate finiscono per sacrificare diversi valori essenziali della vita morale e politica di un Paese. Si sacrifica spesse volte la possibilità di sviluppo economico di taluni settori ma, soprattutto, si sacrifica il sostanziale contenuto morale della vita del Paese perché chi è obbligato a sacrifici che superano la sua capacità di sopportazione, ricorre a tutti gli artifici per sottrarsi a questo sacrificio e quindi svuota dal di dentro la legge. È questa la posizione più irregolare, vorrei dire più anarchica che si possa realizzare in un Paese e che deve essere evitata da chi ha senso della propria responsabilità di uomo di governo. (?) La lotta tra il fisco e il contribuente è una lotta fra orbi per non dire fra ciechi: il più fornito, il più abile, il più esperto ha infiniti modi per sottrarsi alla stretta che gli viene dall?amministrazione finanziaria; né, d?altra parte, è possibile immaginare una struttura statale che sia esclusivamente imperniata sul compito del ricercare l?imposta; certamente si potrebbe migliorare molto il rendimento dei tributi nei confronti di determinare categorie se fosse possibile e conveniente aumentare il numero dei funzionari adibiti a questo compito; ma è una pessima operazione economica quella che porta all?aumento dei costi per determinare un aumento delle entrate. E allora ci siamo sforzati di cercare, di capire, di individuare una tecnica che permettesse di superare questa posizione del cieco che cerca di raggiungere un altro che ciecamente si sforza di sfuggire alla stretta dell?amministrazione». Quando morì Vanoni, l?uomo che ha veramente fatto pagare le imposte agli italiani, che veramente ha fatto e in gran parte vinto la lotta all?evasione, al suo funerale c?erano migliaia e migliaia di persone e il New York Times scrisse: «Vanoni era, in misura maggiore di qualsiasi altro uomo politico italiano, vicino ad essere indispensabile e insostituibile». Anche Vanoni combatté l?evasione con metodo, determinazione, severità. Ma non digrignò mai i denti come fanno i nostri vampiri attuali, non lanciò mai accuse e minacce generiche, non usò mai l?evasione come alibi per una politica predatoria. Credo che Vanoni soffra molto nel vedere la orrenda demagogia che si fa intorno a questa materia nei giorni nostri. Io credo che noi avremmo bisogno di un ministro non come lui, cosa impossibile, ma che almeno gli assomigli. Chi è: Vitale, l’economia Marco Vitale, tra i fondatori dell?Arthur Andersen in Italia della quale è stato socio per quindici anni, è da sempre impegnato per la modernizzazione dei mercati finanziari. Èstato tra i principali divulgatori della certificazione dei bilanci, tra i promotori dell?attività dei fondi aperti e di quella del ?private equity and venture capital?, presiedendone l?associazione dal 1986. Svolge un?intensa attività professionale di consulenza strategica (Vitale Novello & Co.) e di saggista. Studioso del non profit italiano ha scritto per Treccani la voce ?volontariato?.

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