I Finistère sono una band nata nel 2012 dall’incontro di quattro musicisti tutti provenienti da altri gruppi da scenari sonori diversi. Sono Matteo Griziotti, voce e chitarra proveniente dai Merci Miss Monroe, Carlo Pinchetti, anche lui voce e chitarra ex Daisy Chains, Gianni Danesi, bassista, attivo sulla scena indie dagli anni ’90 con i Clinker Portland e Matteo Greco, già Cheap Mondays , alla batteria.
Nella loro scheda ufficiale si legge una descrizione a mio avviso molto clazante: «dalla scrittura dei pezzi nei prati della provincia, serbatoio illimitato di suggestioni e ispirazioni, ai live nei club più ambiti della Lombardia, il volto dei Finistère va definendosi, adagiandosi su soffici atmosfere indie pop di matrice anglosassone, scegliendo testi in lingua italiana e ricreando, nella costruzione dei brani, dinamiche raffinate e trasognate». “Alle porte della città” è il loro primo LP, la cui uscita ufficiale è fissata per il 25 ottobre 2014. Un album molto particolar anche perché il gruppo, nelle esperienze precedenti non si era mai cimentato con testi in italiano. Di questo e di molto altro ho deciso di parlarne con uno di loro, Carlo Pinchetti, mia vecchia conoscenza ai complicati tempi dell’Università Statale di Milano.
Tu vieni dall’esperienza dei Daisy Chains che, senza usare paroloni complicati, facevano un wave-punk cantato in inglese. Come si passa da quello a questo pop intimo dei Finistère?
È stato un passaggio di puro istinto, un po’ come passare da un libro ad un altro e trovarli belli e coinvolgenti. Niente ti impedisce di apprezzarli entrambi, però in una certa fase della tua vita uno può risultare più calzante. Ecco, in questo momento mi sento più zen e meno arrabbiato. Forse sarà che invecchio o che son diventato papà. O forse che leggo più poesia e meno biografie di rockstar…
A sentire “Fretta (dall’album Monster & Pills dei Daisy Chains) questa era una direzione che già avevi in mente…
Caspita sei andato a riprendere “Fretta”! In effetti è il primo brano che ho scritto in italiano, dopodiché ho fatto altri tentativi ma senza troppa convinzione. Ai tempi però non avevo ancora le idee chiare come le ho ora, il tema della canzone però è interessante a pensarci bene… un verso come “questo caos che avvelena ogni mio respiro” potrebbe benissimo essere una sorta di primo seme finisterico.
Da dove viene il nome del gruppo?
Il Finistère è l’area più estrema della Bretagna, quella che si butta a capofitto nell’oceano. Il nome viene dal latino finis terrae, che significa fine della terra ma anche del mondo e rimanda ad un immaginario bellissimo. Io adoro la Bretagna, ci ho passato tante vacanze da piccolo e da meno piccolo, e ho pensato che tutto il fascino che si porta dietro un nome del genere poteva valere lo sforzo di utilizzare un appellativo francese con un accento grave. Aggiungici che è il titolo di una poesia di Sylvia Plath e hai completato il quadro.
Questo trovarsi di musicisti che vengono da esperienze diverse come avviene?
Tutto nasce dal fatto che io ero e sono un fan di Matteo e dei Merci Miss Monroe e mi sembrava assurdo pensare che fosse da qualche tempo piuttosto fermo, musicalmente parlando, così gli ho buttato lì di provare a fare qualcosa insieme. Lui era totalmente in astinenza e si è buttato a capofitto, un paio di giorni dopo eravamo già a Bergamo in sala prove con le chitarre. Theo è un amico da una vita ed è il miglior batterista in circolazione, quindi l’aggancio è stato molto naturale. Gianni invece mi aveva confessato qualche tempo prima di aver suonato il basso negli anni ’90 allora l’abbiamo invitato alle prove e nonostante l’attitudine low-profile che teneva agli inizi nei nostri confronti si è rivelato essere il miglior bassista che potessimo chiedere.
Il passaggio all’italiano cosa cambia nel tuo modo di fare musica?
Mi ha aperto un mondo e reso libero. Sembra assurdo ma prima dei Finistère non ho mai pensato che cantare nella mia lingua, nonché in quella di tutti i miei potenziali ascoltatori, fosse una buona idea. Probabilmente per una questione di riferimenti culturali, gusti. La soluzione è stata liberarmi di ogni preconcetto e scrivere canzoni esattamente come facevo prima e poi aggiungerci l’italiano, anzi, la canzoni nella maggior parte dei casi nascono in una sorta di inglese basico e poi rielaboro le sonorità sull’italiano. Ora mi sento meglio quando canto, so di aver dato il massimo per far funzionare il testo che ho scritto assieme a Matteo e so che chi ho di fronte sta (probabilmente) capendo.
La cosa che colpisce del disco è che all’interno di una sonorità abbastanza rilassata e quasi positiva emerga in realtà un messaggio duro, a tratti incazzato quasi totalmente disilluso. È una cosa venuta naturalmente o cercata?
Sì, un esempio di questa “contraddizione” può il singolo “Pronti alla Rivolta”, (all’apparenza una ninna nanna dolce e quasi incantata. Il testo però esordisce con «C’è una storia d’odio alle porte della città» ndr) È una cosa piuttosto naturale, anzi totalmente naturale, non c’è niente di “cercato” in questo disco, è molto spontaneo, quasi punk, a tratti, nell’attitudine. Riflette bene le personalità mia e di Matteo che sono molto differenti, così come le nostre voci. Se lui è decisamente una persona positiva e attiva, io al contrario sono piuttosto pessimista e malinconico, il bello di questo contrasto è che poi nascono canzoni così, “contrastate”, dure ma dolci.
Per altro l’unica cosa che non cambia nell’approccio è l’essere rigorosamente indie (mi rendo conto sia un termine ormai desueto e ormai vuoto) nel senso che non c’è nessuna voglia o spinta nel cercare di arruffianarsi l’ascoltatore. Niente ritornelloni o argomenti felici…
È il mondo dal quale veniamo, è la musica che ascoltiamo, quella che ci piace, nelle sue più varie declinazioni, naturalmente poi si finisce per andare in quella direzione. Dico sempre in discussioni accese con colleghi vari che non farei mai a cambio con chi faceva musica, che ne so, negli anni 80 ad esempio, e sperava di sfondare e avere un successo planetario. Trovo magnifico che nel 2014 un gruppo indie possa, a dispetto di qualsiasi scelta commerciale altrui, proporsi, avere una fetta di pubblico e togliersi delle soddisfazioni. Non misuro la mia soddisfazione dal successo ma dal puro piacere di fare canzoni.
Per ascoltare l’album potete cliccare qui
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