Mondo

Finis Europae. Svezia, Danimarca, Finlandia: lo sciovinismo del welfare

Per generazioni di europei Svezia e Danimarca rappresentavano un sogno di democrazia, inclusione e welfare. Oggi, in Danimarca basta dare un passaggio a una famiglia di migranti per finire nei guai. E c'è chi, arrivato, ritira la propria richiesta di asilo. La Norvegia ha previsto un bonus di 10mila corone per i rifugiati che decidono di "tornare a casa". E molti decidono di tornare davvero, anche se una casa non l'hanno più. Che cosa accade al welfare del Nord?

di Marco Dotti

Quanta immigrazione possono sopportare i sistemi di welfare prima di toccare il loro fatidico punto di snervamento e collassare? Domanda cruciale, tenendo conto di quanto sta accadendo in Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia. Paesi che hanno dato vita e forma a un’impalcatura estensiva dei diritti configurando, accanto a quella politica e civile, una terza via per la cittadinanza su cui l’Europa unita avrebbe dovuto, voluto e forse anche potuto basare gran parte delle proprie sfida: la cittadinanza sociale.

Il 2016 sarà l’anno in cui capiremo se etiche dell’accoglienza, politiche dell’inclusione ed economia del sociale potranno andare ancora nella stessa direzione o se tra economics e morality si produrrà una scissione sempre più radicale e profonda. Fino a due anni fa, pochi avrebbero pensato che la polarizzazione fra “welfare” e “migrazione” potesse assumere una linea di faglia tanto critica proprio nell’Europa del Nord. Se la crisi in Svezia ha il suo epicentro nella politica, in Danimarca il focolaio parte direttamente dalle nervature del sociale. E nel

Svezia: nessuno è più il benvenuto

Basta poco per spostare gli equilibri in Paesi con grandi spazi, ma bassissima densità abitativa. Oggi in Finlandia troviamo 0,7 profughi ogni 1000 abitanti, in Norvegia e Danimarca 2,6, ma il record europeo è della Svezia. Paese con 9milioni e mezzo di abitanti,il rapporto maggiore tra rifugiati e residenti: 8,4 ogni 1000. Per fare un paragone prendiamo la Germania, che i media hanno spesso descritto come “Paradiso dei rifugiati”: qui, su una popolazione di 80milioni di abitanti, quindi 8 volte più della Svezia, il rapporto tra rifugiati e cittadini residenti è soltanto di 2,5 ogni 1000. L’Italia ha 1 profugo ogni 1000 abitanti: se da noi si parla di “esodo biblico” e di “invasione” che cosa dovrebbero dire in Svezia, Norvegia e persino nella piccola Finlandia che ha 10 volte meno abitanti dell’Italia?
Gli ultimi dati parlano di 226.158 richiedenti asilo. Notizia del 28 gennaio scorso: il Ministero degli Interni svedese si è detto pronto a espellere circa la metà dei richiedenti asilo. Oltre 110mila persone che verranno cacciate dal Paese. Verso dove? In Irak? Nelle zone controllate dall'Isis? O spariranno oltre il confine russo? Lo stesso si appresta a fare la Finlandia, mentre la Norvegia ha orientato il proprio raggio d’azione proprio verso l’Artico e la Russia dove verranno mandati i richiedenti asilo che si vedranno rigettata la richiesta. La Svezia si è sempre vantata di essere “Il Paese dove ognuno è il benvenuto”. Nel giro di un anno è cambiato tutto.
L’economia svedese è in salute, la crisi è integralmente politica. La destra estrema sta prendendo piede e cresce la rabbia nei quartieri periferici soprattutto ora che i giornali annuncianl ogni giorno i 200mila arrivi previsti per il 2016. Nessuno è più il benvenuto. Nessuno. Oramai anche la Svezia sta rinunciano a presentarsi come “potenza umanitaria”, immagine che si era ritagliata addosso negli anni.

“O il welfare o i rifugiati”: non c’è dibattito che non inizi con questo dilemma e la destra antieuropea ha già vinto la propria battaglia, riuscendo a polarizzare il discorso pubblico. Oggi il più del 45% degli svedesi pensa che rifugiati e richiedenti asilo siano la principale minaccia al sistema. Basta andare sul ponte di Öresund, 16 km inaugurati nel 2000 che uniscono Danimarca e Svezia. Doveva essere il simbolo di un’Europa senza frontiere, ma da qualche mese la polizia svedese ha rispristinato i controlli.

Danimarca: lo sciovinismo del benessere

Il primo ministro danese è stato chiaro: “non venite”. Ancor più esplicite le parole di Inger Støjberg, quarantaquattrenne che presiede il dicastero dell’Integrazione: "dobbiamo dissuaderli e farli restare a casa loro”. Come fare, con chi una casa non ce l’ha e vive nel limbo dei campi profughi? È ancora Støjberg a spiegarlo, mentre indica la pagina di un quotidiano arabo comprata dal suo governo: “investiamo in campagne informative per far sì che il minor numero di richiedenti asilo arrivi in Danimarca”. Piacciano o no le parole della “ministra” qui non c’è più welfare per tutti. Accogliere si deve, ma oltre un certo limite non si può. Il timore è che salti il welfare e, di conseguenza, salti tutto.

L’espressione “welfare chauvinism”, sciovinismo del benessere fu coniata dal ricercatore Jef Huysmans proprio per descrivere l’insicurezza sociale dei danesi che nel migrante già nei primi anni Novanta vedevano un fattore di aggressione al proprio sistema sociale.

Ai primi di settembre, il governo guidato da Lars Lokke Rusmussen ha pubblicato una serie di annunci sulla stampa libanese, tra cui il quotidiano di lingua inglese The Daily Star. Scopo: far conoscere al milione e passa di siriani che si trovano Libano che nel Paese che fa da ponte con il paradiso del welfare scandinavo le porte si stanno chiudendo, il multiculturalismo è stato un bel sogno e come tutti i sogni si è dissolto a contatto con la realtà, ma soprattutto: se si vuole mantenere un livello coerente e dignitoso di accoglienza non è possibile accogliere tutti: qualora saltasse il welfare, salterebbe il Paese. Qui l’assistenza pubblica è l’ultimo efficace ammortizzatore rispetto a un divario di classe e di reddito crescente.

Gli equilibri in Danimarca sono sottili, la pressione fiscale altissima, ma i servizi sociali, assistenziali, sanitari e scolastici sono sempre stati considerati un modello. Per anni il World Happines Report ci ha raccontato che i danesi erano i cittadini più felici al mondo. Forse si sbagliava o forse la rabbia e il rancore montano così rapidamente che non c’è indice che tenga. Certo, la Danimarca continua a offrire corsie preferenziali ai giovani esperti in tecnologie informatiche e biomolecolari. I cervelli in fuga fanno comodo, ma non contraddicono l'evidenza di un'esclusione sociale crescente. Casomai la comfermano.

Dal 26 gennaio scorso, i beni dei migranti vengono sequestrati. Sono fatte salve le fedi nuziali e i pochi oggetti considerati di rilevanza affettiva e che non superano il valore di 1329 euro. Tutto ciò che oltrepassa la soglia, viene requisito per mantenere le spese di vitto e alloggio del richiedente asilo. Una misura shock che, però, è già applicata in Norvegia. Più dura, ma meno dibattuta è stata invece la norma sui ricongiungimenti: chi arriva e ottiene l’asilo politico dovrà aspettare tre anni prima di poter chiamare nel Paese la propria famiglia.

La Danimarca conta oggi 5.581.503 abitanti con un’età media di 41,8 anni, si è retta per decenni su tre pilastri: omogeneità culturale, welfare e fiducia sociale. Intaccando omogeneità o fiducia – così si ritiene – non è solo la sostenibilità, ma l’intero equilibro del modello a saltare.

Ecco perché le cose devono cambiare, dichiara il ministro Støjberg. “Non possiamo tenere il passo con l’attuale afflusso di immigrati”. In Danimarca ci sono 2,2 immigrati ogni 1000 abitanti. Il World Factbook della Cia non distingue fra migranti economici, rifugiati, migranti climatici, clandestini e irregolari. Serve ancora distinguere? Poca distinzione, oramai, viene fatta non solo tra la gente – qui preferiscono parlare di “popolo”, folk – ma anche tra i decisori politici.

Accade così che tra il “non venite, non vi vogliamo” dell’estrema destra rappresentata dal Dansk Folkeparti (DPP, letteralmente “partito del popolo”), e il “non venite, non possiamo accogliervi” del premier Lars Lokke Rusmussen e della destra liberale, che qui però si chiama “sinistra” ovvero Venstre – Danmarks (venstre significa, appunto, sinistra), la differenza è sottile e, forse, a ragion veduta non c'è.

Anche perché la destra populista assicura alla minoranza al governo un appoggio tecnico parlamentare, senza il quale avrebbe vita breve.

Ciò che i migranti globali devono sapere – secondo Støjberg – questo è che il sussidio per ogni richiedente asilo è stato dimezzato, passando da 10.848 corone a 5.954 corone. In sostanza: 797 euro. Il costo della vita, in Danimarca, è molto alto e ai richiedenti asilo è permesso vivere in case private o di amici.

Chi arriva in coppia con dei bambini riceve per ora 2.229 euro, ma un bonus di 200 euro è garantito a coloro che dimostrano di possedere una conoscenza di base della lingua danese. "Vogliamo premiare le persone che vengono qui e vogliono integrarsi" racconta Støjberg, anche se le richieste di asilo sono raddoppiate in questi ultimi anni e hanno raggiunto quota 15mila.

Più occupazione uguale meno accoglienza?

Troppe per un sistema che, pur avendo un Pil pro capite di 47.191 euro – in linea con quello della vicina Svezia – e la disoccupazione giovanile tocca l’11,5%. Nell'Eurozona, la disoccupazione media giovanile è al 22%. All'Italia tocca la maglia nera sul fronte occupazione: la percentuale complessiva di occupati (60,5%) è la più bassa tra i 28, tranne che in Grecia, e il divario tra uomini e donne che lavorano è del 20%,il maggiore ad eccezione di Malta. Ciò detto, l'Italia, a detta di tutte le rilevazioni qualitative e di sentiment, risulta il Paese più accogliente.

Contrariamente, i Paesi al vertice dell' occupazione sono Svezia (80,5%),Germania (78%),Gran Bretagna (76,9%), Danimarca e Estonia (76,5%) e Olanda (76,4%) sono quelli con più problemi sul fronte dell'accoglienza.

Ma è il primo dato a preoccupare: i giovani disoccupati sono i meno propensi a accettare tagli al welfare – il loro unico ammortizzatore sociale – per accogliere altri richiedenti asilo. Il numero dei richiedenti è raddoppiato tra il 2013 e il 2015. Se il trend verrà confermato, tra pochi anni per il welfare danese saranno guai. Grossi guai.

Finlandia: uno scenario post-esodo

La Finlandia inaugura il suo 5 anno di recessione, dove il nesso fra le migrazioni e la deindustrializzazione iniziata con la fine dell’era-Nokia apre inediti scenari di post-welfare con richiedenti asilo che chiedono di ritirare le loro richieste e tornare da dove erano partiti.

In un solo anno, dal 2015 al 2014 le richieste di asilo sono passate da 4.600 a 32.500. Impossibile “processarle” tutte, dicono dal Ministero degli Interni: servirebbero 200 volte il numero di addetti attualmente impiegati negli uffici immigrazioni. Una condizione impossibile da realizzare.

La cittadinanza sociale è finita proprio là dove aveva mosso i primi passi?

Un’indicazione ci viene dai circa 621 richiedenti asilo (255 irakeni, 184 albanesi, 22 marocchini, 18 russi) che negli ultimi mesi hanno presentato istanza per ritirare la loro domanda e hanno chiesto di essere rimandati da dove erano venuti. Alcuni si sono organizzati il viaggio di ritorno da soli. Altri hanno chiesto aiuto a organizzazioni umanitarie. Si calcola che finora siano oltre 4000 i casi di questo tipo: gente che non solo fugge da qualcosa, ma va verso qualcosa e, non trovandolo, sceglie la via del ritorno.

Per il 2016, il numero dei nuovi rifugiati che arrivano in Finlandia dovrebbe attestarsi sulle 5 – 6 mila persone. Non un numero altissimo se consideriamo che corrisponde all’incirca al numero di decessi di cittadini finlandesi in età lavorativa o, se prendiamo un altro termine di paragone, alla metà di coloro che per motivi di salute abbandonano il lavoro restando totalmente a carico del sistema di welfare. Quando arriva, il richiedente asilo viene immediatamente inserito nel sistema di accoglienza e ha diritto a una serie di sussidi, tra cui cibo, alloggio, assistenza sanitaria, educazione di base per sé e i figli, possibilità di svolgere attività in palestra e un sostegno al reddito in denaro.

L’assistenza sanitaria è ridotta al minimo. In un Paese dove tutto è garantito dallo Stato, “dallla culla alla tomba” come si diceva un tempo, per i richiedenti asilo l’assistenza si reduce al primo soccorso e tutto ciò che non rientra in questo primo soccorso viene detratto dal “denaro di accoglienza”. Non c’è copertura per i problemi di salute cronici, a lungo termine, non si offrono cure dentistiche, salvo i casi di dolore acuto. Il richiedente asilo non ha diritto a protesi, contrariamente a quanto accade ai cittadini finlandesi.

In Finlandia si è già delineato un modello di welfare a più velocità. Inclusivo per chi è già incluso, espulsivo per chi chiede o necessità di inclusione. In un solo anno, dal 2015 al 2014 le richieste di asilo sono passate da 4.600 a 32.500. Impossibile “processarle” tutte, dicono dal Ministero degli Interni: servirebbero 200 volte il numero di addetti attualmente impiegati negli uffici immigrazioni. Una condizione impossibile da realizzare.

Immagine in copertina: una donna lascia i propri giolielli davanti a un ufficio di polizia, in segno di protesta, di fronte all'Ambasciata greca di Atene (Photo: LOUISA GOULIAMAKI/AFP/Getty Images).

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.