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Fine pena mai. Ovvero il tempo che t’uccide

Lettere dal carcere

di Cristina Giudici

Ergastolo, fine pena mai. Certo che i ricordi sono un plotone di esecuzione. Rivedo il mio viso, pallido; gli occhi nudi, annientato. Ho stritolato la mia dignità; improvvisamente dispersa. Senza ascoltare l?implorazione del silenzio, del mio sguardo privato dell?ultima volontà di un perdono. Ergastolo, fine pena mai, il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività. Una pena che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste e non assolve. Quando il giudice ha pronunciato la sentenza di ergastolo, non ho provato nulla di diverso da ciò che era già in me o meglio da ciò che non c?era in me: indifferenza. Questione di immagine, di prestigio, forse di leggi non scritte della strada, di miti su piedistalli di cartone. Nella lucida follia di chi è diventato un pezzo di architettura penitenziaria come me, di chi si è fatto respirare e vivere dal carcere, a tal punto da saper solo sopravvivere. Vorrei essere capace di esprimere ciò che mi porto dentro, nella ricerca di una dimensione che non possa coincidere solamente con la fisicità della segragazione. Trent?anni di carcere non sono un?astrazione, ma decenni di sbarre chiuse sui rimorsi che lasciano il segno. A volte una cella fa strani scherzi, riduce, restringe e spegne, ma di fronte alla morte annunciata della galera ci può anche essere un sorprendente incontro con gli altri; lo stupore di scoprire l?universo interiore che è in noi. La scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo solo alle proprie forze per tentare di essere uomini liberi, nonostante le catene ai polsi. L?ergastolo che sto scontando da tanti secoli è dentro di me, lo riconosco, è un mio compagno di viaggio, è la parte più oscura che è in me. Con le mani in avanti cerco di sporgermi a guardare oltre le mie colpe, che sono diventati macigni sulla coscienza, per vedere ciò che sono oggi. Ho avuto tanto tempo per pensare a miei fantasmi, ai mie morti, li ho messi in fila. Qui dentro dove si vive in questo asse: colpa-pena-cella. Guardo all?ergastolo che mi porto addosso, dove non esiste né principio né fine, né prima, né dopo. Il mio ergastolo è fatto di vuoto e di pieno, di peccato e di follia. Eppure esiste una linea di confine per la ragione, è questa cella di arredi spogli e insignificanti dove cerco di accorciare la distanza fra la morte del ?fine pena mai? e la speranza dell?avvenire che mi cresce dentro. Si perché qui, dove sconto questa condanna che è un incubo, trovo un?umanità che vive e mi regala la prospettiva dell?avvenire. Non amo questo recinto che è la mia cella, ma ho imparato ad accettarlo come mio intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, la meditazione, i rapporti umani finalmente sbocciati e cresciuti. Ci sono momenti in cui il panico mi assale, mi paralizza, mi terrorizza, nel rendermi conto di come io abbia fatto a diventare il simbolo della condanne delle condanne. Sono passato per tante notti insonni, chiedendomi se mai avrei potuto esistere di fronte a tanti chiavistelli. Ma il presidente del Tribunale ha pronunciato la sentenza: ergastolo, la fine di un sogno che non ha fatto tempo a nascere. Alle mie spalle ormai ci sono venticinque anni di carcere e di sofferenza, anni in cui ho cercato di uscire dalla gabbia, tentando di fare capire agli altri chi sono io oggi, perché oggi la sola libertà che conosco presuppone l?amore per la verità, dei miei errori, e l?amore per gli altri. Ergastolo, ergastolo, ergastolo. E così sia. Io lo sto scontando. Con i miei nuovi impegni e le mie nuove responsabilità, ma anche se sottovoce voglio dirvi che sarebbe meglio affidarsi a una pena che non sia solo mera sopravvivenza e sofferenza fine se stessa, ma ci vorrebbe una pena che possa anche essere un tragitto di vita. Voglio sperare che in futuro ci sia una pena che parta dalla dignità di una persona, dalle sue capacità. Una condanna che offra al condannato occasioni di riscatto e riparazione. Vincenzo Andraous, Voghera Caro Vincenzo, le sue parole mi fanno pensare quanti anni di luce di distanza ci siano ancora fra noi che stiamo qui a parlare di carceri più umani e leggi migliori e voi detenuti, i cosiddetti ?fine pena mai?. Il bagaglio di sentimenti, emozioni e di colpe che lei mi racconta appartengono alla sua storia; non hanno certo bisogno di una risposta, ma forse possono servire a farci capire cosa significhi concretamente essere un ergastolano. Mi chiedo cosa succederà in autunno, quando la legge sull?abolizione dell?ergastolo arriverà alla Camera. A parole tutti, politici, giudici si dicono d?accordo a voler trasformare la pena in qualcosa di utile affinché il carcere non sia solo, come dice lei, tempo che non passa mai e non assolve. Eppure, davanti alla prospettiva della legge Simeone che prevede la sospensione della condanna per piccoli reati, è successo un putiferio. Siamo sicuri che vogliamo un carcere più umano?


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