Welfare

Fine pena mai, ma il lavoro quasi sempre

La vita dei 1.434 ergastolani nelle carceri italiane

di Daniele Biella

Ce l’hanno quasi tutti quelli che sono in condizione “non ostativa”. «Un privilegio un po’ paradossale», commenta Nicola Boscoletto: nella sua coop ne lavorano 10 Ergastolo e lavoro, binomio difficile. Dei 1.434 ergastolani presenti in 50 delle 207 carceri italiane a fine giugno 2009 (dati dell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone), ad avere un impiego dentro o fuori le mura sono meno della metà. «Basta considerare che almeno il 50% degli ergastoli è “ostativo” (ovvero non prevede alcun beneficio), condizione nella quale, data anche la rigidità delle restrizioni, sono solo poche decine quelli che lavorano», spiega Christian De Vito, presidente dell’associazione Liberarsi e volontario di lunga data nel carcere di Sollicciano, alle porte di Firenze. In tutto, gli ergastolani ostativi sono 769, «150 dei quali condannati con il 41 bis, il carcere duro per reati di mafia o terrorismo, la maggior parte degli altri nei quattro livelli di alta sorveglianza», aggiunge De Vito. Dei restanti 665, «nessuna cifra ufficiale, ma almeno l’80% lavora: circa 200 ergastolani grazie all’articolo 21 o in misura alternativa (a cui si può accedere dopo 20 anni di reclusione, ndr) vanno all’esterno, altrettanti lavorano in carcere per conto terzi, il resto è alle dipendenze del Dap», il Dipartimento amministrazione penitenziaria per il quale il detenuto svolge le tre mansioni classiche di “scopino”, ovvero addetto alle pulizie, “spesino” ossia quello che ritira la lista del materiale richiesto dai carcerati, e la più ambìta di “scrivano”, che redige le lettere dei compagni di pena.
Un’ottima esperienza di lavoro in carcere è quella in atto nella casa di reclusione di Padova, dove degli 80 reclusi che lavorano per conto della cooperativa sociale Giotto, dieci scontano l’ergastolo: «Sono occupati in un call center, nell’assemblaggio o nella pasticceria che abbiamo aperto dentro al carcere», spiega Nicola Boscoletto, presidente di Giotto.
La percentuale di ergastolani “non ostativi” che lavorano è comunque assai superiore a quella dei detenuti ordinari perché «avendo pene più lunghe hanno tendenzialmente la precedenza. È un privilegio un po’ paradossale», commenta Boscoletto. «Ma anche per loro, il numero è in discesa: con i tagli alle spese degli ultimi anni di lavoro in prigione ce n’è meno per tutti», riprende De Vito, che dal 2007 con 20 volontari di Liberarsi, sta girando i penitenziari italiani per promuovere la campagna «Mai dire mai» per l’abolizione dell’ergastolo. «A oggi 937 ergastolani hanno fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per chiedere che l’Italia venga condannata per violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo», rivela il presidente dell’associazione, la cui azione è supportata anche da vari enti non profit europei «dove l’ergastolo non esiste, come in Spagna, o è solo teorico, come in Germania. In Italia, al contrario dei luoghi comuni, il “fine pena mai” è una realtà: chiedetelo ad Antonio Marano, 65enne, all’Ucciardone di Palermo da 43 anni».


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