Economia
Finanza islamica, un’opportunità di crescita per l’Italia?
Il tasso di crescita attuale del fenomeno è stimato intorno al 20% all'anno e le banche islamiche operative sono circa 500 in 75 paesi. L’intervista a Vincenzo Amendola, sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri con delega al Medio Oriente
In un momento come questo in cui l’Occidente guarda al mondo islamico con sospetto e paura, la finanza islamica continua ad attirare l’interesse di grandi società di servizi finanziari ed istituti di credito convenzionali occidentali. Il tasso di crescita attuale del fenomeno è stimato intorno al 20% all'anno e le banche islamiche operative sono circa 500 in 75 paesi. Ci troviamo di fronte ad un insieme di norme che sono conformi ai precetti della Shari'a, ovvero la giurisprudenza musulmana. Punto di partenza del sistema islamico è il divieto di chiedere interessi (riba), considerati una forma di usura. In sostanza il profitto deve derivare dall’assunzione di un rischio non puramente finanziario ma connesso ad un’impresa economica. E questo significa che l’uso dei prodotti derivati almeno in teoria è vietato. In estrema sintesi i principi della finanza islamica sono ispirati al mantenimento di un certo livello di equità e giustizia distributiva tra gli individui. La legge islamica proibisce infatti gli investimenti in attività quali la produzione di alcool, armi, materiale pornografico, gioco d'azzardo, tabacco. Al punto che molti esperti hanno individuato forti analogie tra finanza islamica e etica. In un articolo del 4 marzo 2009, il quotidiano del Vaticano, l’Osservatore romano, scriveva: “pensiamo che la finanza islamica potrà contribuire alla rifondazione de nuove regole per la finanza occidentale, visto che stiamo affrontando una crisi che, superati gli iniziali problemi sulla liquidità, ora è diventata eminentemente una crisi di fiducia verso il sistema. Il sistema bancario internazionale ha bisogno di strumenti che riportino al centro l’etica del business, strumenti che permettano di raccogliere liquidità e aiutare a ricostruire la reputazione di un modello capitalistico che ha fallito”. Allo stato attuale, la popolazione musulmana residente in Italia ammonta a circa 1,7 milioni. Secondo le previsioni di Pew Research entro il 2030 arriveranno a superare la quota di tre milioni.
La finanza islamica potrebbe quindi rendere disponibile alla popolazione islamica residente in Italia un’alternativa ai sistemi finanziari convenzionali. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Amendola, sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri con delega al Medio Oriente, durante il convegno La finanza islamica in Italia: dalle parole ai fatti, organizzato dallo Studio Legale NCTM, che dal 2013 si occupa di finanza islamica.
Quali sono le reali prospettive di sviluppo in Italia?
In Europa è Londra la capitale occidentale della finanza islamica. Il Regno Unito nel 2014, è stato il primo paese occidentale a emettere i sukuk, i bond islamici. Ma altri stati, tra cui la Germania e la Francia, si stanno attrezzando per poter consentire lo sviluppo di questa diversa tipologia di finanza. L’Italia grazie alla sua posizione geografica al centro del mediterraneo e all’intensità dei flussi migratori provenienti dai Paesi islamici, può cogliere le opportunità che la finanza islamica offre per attrarre gli investitori stranieri e intensificare le relazioni politiche e commerciali con il Medio Oriente e il Nord Africa, un’area in costante crescita».
Le banche islamiche spesso vengono accusate di essere di supporto al terrorismo. Quanto di vero c’è?
Al pari di tutti gli intermediari finanziari, anche gli istituti finanziari islamici sono vincolati al rispetto delle norme antiriciclaggio e antiterrorismo e quindi il pregiudizio che collega la finanza islamica al terrorismo è privo di fondamento e rischia di alimentare gli innumerevoli equivoci sull’Islam e i musulmani. Fatta questa premessa, è utile ricordare che l’Italia ha un ruolo di guida nella coalizione internazionale contro il terrorismo, e insieme agli Stati Uniti ha creato una struttura di coordinamento per fare luce sulle connessioni esistenti tra attività terroristiche e finanza internazionale.
Cosa si sta facendo in concreto in Italia per favorire la diffusione di strumenti finanziari Sharia-compliant?
Innanzitutto bisogna sfatare la convinzione che la finanza islamica sia soltanto per i musulmani. È un’opportunità per tutti. E in Italia già opera in base al codice civile. Ad esempio i contratti sharī‘ah-compliant sono compatibili con i principi di liceità e meritevolezza di cui all’art. 1322 del codice civile che regola i contratti atipici. Nel 2010 la stessa Banca d’Italia aveva evidenziato che gli intermediari islamici non risultano necessariamente più rischiosi delle controparti tradizionali, ma presentano una complessità operativa maggiore. In uno studio del 2014, la Consob precisava che non esistono impedimenti di tipo legale in Europa e in Italia a predisporre prodotti finanziari che rispettino la shari’ah. Certo manca una regolamentazione specifica e sono necessarie modifiche al diritto tributario per non penalizzare le transazioni di finanza islamica. A questo proposito, presso la Commissione Finanza alla Camera dei Deputati, un gruppo di esperti è già al lavoro per creare un impianto normativo ad hoc in modo da favorire lo sviluppo dei prodotti di finanza islamica. L’adeguamento dell’impianto normativo serve non solo a recepire alcune caratteristiche tecniche della finanza islamica ma anche a definire il regime di trasparenza cui devono essere assoggettati i prodotti Shari’ah compliant di cui intravediamo campi di applicazioni molti positivi per l’economia italiana.
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