Mondo
Finalmente libero. Ma gli altri?
Le prime parole di Gilad Shalit dopo la liberazione: «Mi adopererò per la pace tra Israele e Palestina»
Non sembra vero: Gilad Shalit libero. Il 25enne israeliano, preso in ostaggio il 25 giugno 2006 dal movimento radicale palestinese Hamas, è stato riconsegnato ai propri cari in cambio di mille degli almeno 4mila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Un accordo insperato, giunto dopo numerosi tentativi falliti quasi in dirittura d’arrivo (sempre riguardanti uno ‘scambio’ di prigionieri). La liberazione è stata festeggiata in modo straordinario in Israele, dove il ‘soldato Shalit’ era considerato alla stregua di un figlio del popolo. Lui, che prima di accedere al servizio militare obbligatorio, si era espresso per una soluzione pacifica al decennale conflitto israelo-palestinese.
Una liberazione, quella del giovane israeliano discussa fino all’ultimo, soprattutto in patria: “Mille detenuti in cambio? Troppi”, è il leit motiv. Anche perché almeno 40 di essi erano condannati all’ergastolo per essere stati gli esecutori di attentati o fiancheggiatori di terroristi. Come la studentessa Ahlam Tamimi, che nell’agosto 2001 ha accompagnato fino agli ultimi metri un amico a farsi esplodere in un pub di Gerusalemme, causando 16 morti e cento feriti. O Abdel Hadi Gharim, che nel 1989 dirottò un bus provocando altre 16 uccisioni. «Israele non perdona e non dimentica», ha fatto scrivere Simon Peres nell’ordine di condono dei 1.027detenuti, la maggior parte dei quali sarà rimessa in libertà ma ‘deportata’ in altri Stati (Siria, Turchia e Qatar si sono dichiarati disponibili) o a Gaza, e solo un paio di centinaia di loro potrà far ritorno alle proprie famiglie in Cisgiordania, nei Territori palestinesi occupati da Israele.
«Ma il principio ‘mille in cambio di uno’ è lecito», interviene a sorpresa nella diatriba il famoso scrittore Abraham Yehousha, «significa che il valore di un soldato israeliano corrisponde a quello di mille militanti palestinesi. Così facendo Hamas riconosce la nostra superiorità militare».
Polemiche a parte, la gioia più intensa sarà quella di padre e madre di Gilad, Noam e Aviva, mai domi nella loro protesta verso il governo israeliano, colpevole di “non fare abbastanza” per la liberazione di suo figlio. Da un anno, i due avevano cambiato residenza, e dalla Galilea vivono in una tenda a Gerusalemme, nei pressi dell’abitazione privata del primo ministro Benjamin Netanyahu. «Certo è importante che arrivi il lieto fine, ovvero che un giovane rapito possa tornare fra le braccia di sua madre», spiega a Vita.it don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di Pax Christi e ideatore della campagna ‘Ponti e non muri’ (che si trova in questi giorni nei Territori con un gruppo di volontari per aiutare la popolazione di un piccolo villaggio palestinese a raccogliere le olive e, nello stesso tempo, per essere mediatore nonviolento con la vicina colonia israeliana). «Ma bisogna essere capaci di guardare questa liberazione da tutti i punti di vista», avverte Capovilla, «per esempio, quanti sanno che da almeno venti giorni è in corso lo sciopero della fame dei reclusi palestinesi in molte delle carceri israeliane per le dure condizioni di prigionia e le continue vessazioni?». Ancora: «Molti dei prigionieri sono meri detenuti politici, che non si sono macchiati di atti terroristici, e a essi è negata alla visita delle proprie famiglie anche per anni». Una realtà nascosta, ma con la quale Israele dovrà fare i conti nell’immediato futuro, soprattutto dopo l’eco internazionale della proposta avanzata all’Onu da Abu Mazen, capo dell’Anp, Autorità nazionale palestinese, che chiede il riconoscimento dello Stato ‘numero 194’, quello di Palestina.
«Provate a chiudere gli occhi e richiamare alla memoria il volto ragazzino di Gilad Shalit, con l’affetto che meritano tutti i giovani che hanno subito la prigionia”, sottolinea Capovilla, “provate però ora a moltiplicare quella fotografia per ogni giovane palestinese detenuto ingiustamente”. Il coordinatore cita le parole del parroco, cattolico, di Nablus, città della Cisgiordania: “Nella mia parrocchia molte famiglie hanno i loro cari in prigione. Preghiamo e alziamo la voce per loro, contro l’ingiustizia della continua umiliazione che spesso questi nostri fratelli devono affrontare».
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