Cultura

Film. Due Oscar molto meritati per Anderson. Un petroliere a due facce

Un Daniel Day-Lewis perfetto, che sembra solo un’anima avida e attaccata al denaro e invece è il crocevia di affetti irrisolti.

di Maurizio Regosa

Il petroliere salta a piè pari l?epopea mitizzante degli anni 50 e torna alle origini del cinema. Quando la conquista della natura ostile e dei suoi frutti segreti era narrata senza mezzi termini da chi sapeva che una lotta è una lotta e che i colpi bassi, la crudeltà, il cinismo, l?indifferenza non erano eventualità ma ingredienti necessari per vincere. O meglio, per tagliare il traguardo per primi. Perché conquistare il podio era comunque un?altra faccenda, come appunto sapevano i cineasti delle origini. Ad esempio Erich Stroheim, cui in qualche modo Paul Thomas Anderson sembra volersi accostare: con Greed (1924) raccontò l?avidità dei cercatori d?oro e fu campione di quel realismo che non è sciatteria stilistica. Al contrario: è ricerca raffinatissima perché la realtà – l?ha spiegato Pasolini – si dà quando vuole lei e per comprenderla occorre fatica e sudore. Tutto questo l?autore del Petroliere (e prima di Magnolia) lo sa e soprattutto lo mette in pratica (ha vinto l?Orso d?argento per la miglior regia). Sperimentando in particolare per l?uso della colonna sonora, curando un rapporto particolarmente originale fra il visivo, il silenzio e ciò che lo interrompe (si vedano i primi 20 minuti oppure la scena dell?esplosione del pozzo), lavorando sui totali e sul legame fra primo piano e sfondo. Una raffinatezza che non contrasta con la vita rozza dei pionieri che giravano il Paese, lungo e largo quant?era, alla ricerca dell?oro nero. Serve semmai a farne comprendere i molteplici aspetti, le contraddizioni profonde. A suggerire, insomma, che la semplicità degli inizi non è che un mito contemporaneo: che già allora le cose erano ingarbugliate, conniventi, ambigue. Prendete il protagonista di questa bella pellicola (un Daniel Day-Lewis perfetto): sembra un?anima solo avida e competitiva, un capitalista attaccato al denaro (che ovviamente non spende) e al petrolio. Invece è il crocevia di tensioni, di impulsi, di affetti irrisolti, di strategie deduttive, che abilmente mette in pratica e riconosce. Sfruttando qualunque occasione – persino il faccino pulito del figlio adottivo – per conquistare la fiducia dei contadini sulle cui terre intende trivellare. E mettendosi così sullo stesso piano di un fanatico (e spudorato) predicatore. È proprio sul continuo confronto tra i due che emerge con sempre maggior chiarezza quello che a me pare il vero tema del film (tratto da Oil di Upton Sinclair) e cioè la continuità fra quel che una nazione riesce a diventare e le sue origini.


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