Economia

Filantropia, cresce la via dell’intermediazione

Ci sono imprenditori che vogliono donare e non hanno il tempo per gestire una fondazione in proprio. O donatori importanti, che vorrebbero allocate al meglio le risorse. Per questo si specializzano family offices o realtà dedicate. Intervista al presidente di Fondazione Donor, Marcello Gallo

di Sara De Carli

Un'altra anticipazione dal numero di aprile di VITA, che potete acquistare qui, e dedicato alla filantropia d'impresa: Fondazioni Spa.

In Italia l’intermediazione filantropica si è sviluppata tardi rispetto al mondo anglosassone, complice anche, a monte, la mancanza di una «vera cultura della filantropia», per cui ancora poco si è compreso «l’importanza della responsabilità individuale e delle donazioni per il benessere collettivo». Marcello Gallo, presidente di Fondazione Donor, traccia un quadro della situazione e spiega perché è ottimista sul fatto che anche da noi presto vedremo una «forte accelerazione» dei Donor-Advised Fund (Daf), uno strumento flessibile ed efficace per chi desidera fare filantropia senza i costi e le complessità di una fondazione proprietaria.

In Italia l’intermediazione filantropica si è sviluppata tardi rispetto al mondo anglosassone. Oggi a che punto siamo?

L’Italia ha imboccato un po’ in ritardo la strada dei Donor-Advised Fund (Daf), ma sono certo che vedremo una forte accelerazione anche da noi. Nella seconda edizione della ricerca che abbiamo realizzato con Finer Finance sui comportamenti filantropici dei wealthy people “nostrani”, non ancora pubblicata, emerge che oltre la metà degli intervistati (individui con patrimonio finanziario fra 500mila euro e 10 milioni di euro) è interessata a ricevere consulenza filantropica all’interno del pacchetto di servizi finanziari di cui usufruisce. In questa direzione va anche il fenomeno dei wealthy people senza eredi, cui si stima facciano capo 10 miliardi di euro che ogni anno, senza specifici interventi, potrebbero finire nelle casse del fisco.

Che cosa la frena ancora?

I freni principali, secondo me, in Italia sono tre: la normativa vigente, l’awareness e cultura della filantropia o, se vogliamo, la sua assenza. Ricordando che l’intermediazione filantropica, essendo un lavoro largamente basato sulla fiducia, comunque richiederà processi medio-lunghi. Sul piano della legislazione, solo la Francia è dotata di una specifica normativa per la creazione e gestione dei Daf mentre nel resto d’Europa, ove presenti, i Daf operano nell’ambito delle leggi sul Terzo settore. Ma Regno Unito e Usa dimostrano che la conformità normativa e fiscale è un aspetto importante per creare un ambiente fertile per Daf e intermediazione filantropica. In Italia una normativa esiste grazie alle novità introdotte dal Codice del Terzo settore in merito ai patrimoni destinati, ma è di fatto inapplicabile per i protagonisti dell’intermediazione filantropica che già usano i Daf. Devo dire che nell’esperienza di Fondazione Donor la mancata segregazione patrimoniale dei fondi non ha mai costituito un ostacolo nell’istituzione dei fondi, ma effettivamente sarebbe auspicabile disporre di un’ulteriore leva per rassicurare il donatore e i professionisti che lo consigliano sull’inattaccabilità dei beni conferiti nel patrimonio destinato.

Sugli altri piani?

Banalmente, sul piano della awareness, i Daf non sono ancora abbastanza conosciuti. Non solo: abbiamo riscontrato che anche i vantaggi fiscali relativi al dono spessissimo sono ancora sconosciuti. Su questo investiamo una grossa fetta del nostro tempo, incontrando e parlando dei fondi a quante più persone possibili. Mentre sul piano culturale va detto che in Italia, rispetto ad altri Paesi, manca una vera cultura della filantropia. Gli italiani donano sempre di più, ma è comunque ancora molto poco. Nel World Giving Index, l’Italia risulta solo 33esima per percentuale di donatori sul totale della popolazione ed è superata da ben 10 paesi nella sola Unione Europea . Un fanalino di coda rispetto a realtà come quella statunitense, che conta una popolazione di 5 volte superiore a quella italiana ma che dona almeno 50 volte di più, 250 miliardi di euro all’anno. Fra l’altro, proprio chi ha di più dona meno: secondo la prima ricerca sulle attitudini filantropiche dei wealthy people i italiani , che abbiamo pubblicato nel 2022, nonostante oltre l’80% del campione analizzato effettui donazioni in denaro a organizzazioni non profit (contro una media nazionale del 40%), queste non superano mediamente l’1% del patrimonio finanziario detenuto. Questo dato diminuisce al crescere delle disponibilità economiche dei donatori: chi ha un patrimonio finanziario fra 5 e 10 milioni di euro dona meno dello 0,1%. Questi dati mostrano come la cultura filantropica in Italia sia ben lontana dall’essere pienamente sviluppata.

Quante sono in questo momento le risorse destinate al non profit tramite Daf?

Valutare in modo preciso la portata dei volumi a livello Paese è complesso. Una stima indicativa richiederebbe un’analisi dei vari fondi ospitati da tutte quelle fondazioni che possiamo considerare “ombrello”: le oltre 40 fondazioni di comunità italiane, i nostri fondi, quelli di Fondazione Italiana per il Dono, alcune fondazioni bancarie, solo per citare i principali attori coinvolti. Sicuramente i Daf in questo momento sono ancora troppo pochi, ma siamo fiduciosi: sappiamo d’altronde che la diffusione dei Daf è un processo lento e se guardiamo per esempio la crescita della Swiss Philanthropy Foundation dal 2006 ad oggi, possiamo vedere che solo dopo qualche anno l’attività “ha ingranato” e il numero di Daf (e dei fondi da destinare al Terzo Settore in essi) ha iniziato a crescere in modo costante, fino a raggiungere l’attuale media di donazioni di 48 milioni di franchi annui.

Quali sono i vantaggi dell’intermediazione filantropica rispetto al creare una fondazione proprietaria?

La nostra posizione ovviamente non è negativa nei confronti delle fondazioni proprietarie, ma è sempre importante ricordare che mettere in piedi una propria fonazione comporta costi non indifferenti, tempo e competenze specifiche: sono temi che spesso vengono sottovalutati. Se le risorse economiche che si vogliono mettere nella fondazione sono molte e se si ritiene di accompagnarle con una struttura operativa adeguata – che è sempre necessaria – allora è opportuno che una famiglia o un’impresa realizzino la propria fondazione, ma in caso contrario esistono forme alternative per concretizzare i propri interventi filantropici nel sociale. Fondazione Donor nasce per supportare e stimolare la crescita e la diffusione della filantropia proprio rendendola accessibile a tutti i donatori, anche a coloro che ritengono di non voler creare una propria fondazione o le cui donazioni non giustificherebbero quantitativamente questa scelta. Il nostro target è rappresentato da soggetti – individui o aziende – che intendano effettuare donazioni che vanno dai 300mila euro ai 7/8 milioni di euro, anche se abbiamo in partenza un Donor-Advised Fund (Daf) vicino ai 10 milioni di euro. È un’opzione di cui le persone apprezzano soprattutto la flessibilità, la velocità e la possibilità di “essere schermati”, volendolo, rispetto alla comunità dei beneficiari. C’è da dire che Fondazione Donor potrebbe operare anche per conto di un trust o di una fondazione proprietaria fornendo consulenza filantropica: la gestione dei fondi resta alla fondazione, noi possiamo essere complementari facendo scouting oppure sulla rendicontazione e il monitoraggio.

L’anonimato è percepito come un vantaggio?

Non c’è una regola che vale per tutti, ma spesso c’è il desiderio di donare per produrre un impatto proprio nel territorio in cui si vive e insieme, esattamente per lo stesso motivo, la volontà di restare nell’anonimato. Un po’ perché si è convinti che la generosità debba essere anonima, un po’ perché non si vogliono far conoscere le proprie disponibilità e un po’ anche per non ricevere troppe sollecitazioni dal non profit. Pur comprendendo queste ragioni, io penso che nel nostro Paese la componente emulativa potrebbe avere una valenza molto importante.

Qual è il profilo delle persone che si sono rivolte a voi?

Fondazione Donor ha avviato l’attività due anni fa, in piena pandemia. Al momento abbiamo 7 Daf attivi, per un valore di 4 milioni di euro e altrettanti in pipeline, per un valore di circa 16 milioni di euro, di cui uno sui 10 milioni. Nel nostro piccolo campione, le donne sono molto protagoniste e si orientano prevalentemente nella direzione di dare aiuto ad altre donne. Gli interventi sostenuti sono prevalentemente in Italia, con una grande attenzione a giovani, istruzione, neet, contrasto alla violenza sulle donne e sostegno alle donne per rientrare nel mondo del lavoro.

I trust sono il primo strumento che viene in mente quando si parla di intermediazione filantropica. Ci si aspettava un grande boom, per esempio dopo la legge sul Dopo di Noi. Quanto sono realmente diffusi in Italia? Quali ostacoli ci sono ancora?

Il trust è uno strumento complesso, riconosciuto dall’ordinamento nazionale ma non regolamentato puntualmente dal legislatore italiano. Fondazione Donor non ne ha, né li offre ai donatori. Anche se il trust è uno strumento che ha la sua validità, nel trust i costi e la componente ammnistrativa sino maggiori che in un Daf, che risulta vantaggioso anche in termini di flessibilità. I costi non indifferenti sono un grande ostacolo, così come lo è la complessità della governance, la disomogeneità nei territori e – nel caso specifico del Dopo di Noi – la difficoltà ad intercettare i bisogni di un target complesso ed eterogeneo. Inoltre, in Italia il trust spesso viene ancora guardato con una certa diffidenza, come lo strumento scelto da chi non vuole essere trasparente: è un pregiudizio fuori luogo, perché non necessariamente “mettere degli schermi” significa l’intenzione di celare qualcosa di non trasparente, ne facevamo un esempio poco fa. Vale la pena anche specificare che trust e Daf sono solo parzialmente intercambiabili fra loro e che non tutte le cose che fa un trust possono essere fatte da un Daf. Il trust può certamente avere come beneficiaria una fondazione o un Daf, o fare attività filantropica, ma non solo: i beneficiari del trust possono essere anche familiari, il trust può svolgere attività economico-commerciale, è soggetto alla normativa fiscale ordinaria, ha la segregazione patrimoniale… insomma, è uno strumento diverso, per necessità diverse. Chi desidera fare filantropia e non vuole incorrere in tutta la complessità giuridica e nei costi di un trust può sicuramente pensare ad un Daf, con vantaggi in termini di tempo, fiscalità e costi.

In questo discorso, che ruolo giocano oggi i family officer e tutto il comparto del wealth management?

I family officer, come tutti i professionisti di consulenza finanziaria, si occupano di guidare terzi in settori ad alta complessità, per realizzare l’equilibrio tra rischio e rendimento dei loro investimenti. Tali professionisti sono specializzati sui servizi finanziari e sulla consulenza di natura finanziaria, non dal punto di vista erogativo: così si trovano spesso impreparati nel far fronte alle sollecitazioni di clienti che chiedono supporto per investimenti non finanziari ma sociali. Lo diciamo sempre, sia ai donatori sia ai colleghi del wealth management: la filantropia è un lavoro e richiede uno specifico set di competenze, e per questo lavoriamo a stretto contatto con loro per massimizzare il “ritorno sociale” delle erogazioni.

Al giro di boa del più grande passaggio generazionale di ricchezza che il mondo abbia mai visto e in un contesto che vede crescere continuamente la concentrazione della ricchezza, che cosa serve a suo giudizio per sostenere la filantropia?

Nel 2020 il Global Family Office Report di Ubs stimava che, in futuro, una gran parte della ricchezza degli individui sarà destinata alla filantropia e che per soddisfare le attese dei propri clienti i professionisti di consulenza finanziaria dovranno avere un'offerta più estesa, che includa anche servizi filantropici. Le nuove generazioni mostrano una sensibilità maggiore verso questo tema e anche di aver meglio compreso che la concentrazione della ricchezza è causa di minore sviluppo economico, maggiori tensioni sociali ed insoddisfazione socialmente diffusa. Rispetto alla mia generazione, i giovani sono più consapevoli che massimizzare l’accumulo di ricchezza non ha grandi utilità. Anzi, per citare un altro rapporto sulla ricchezza globale, stavolta di Boston Consulting Group (edizione 2020), “wealth won’t just be about money”: anche lo scopo, la connessione con gli altri e la capacità di fare la differenza nel mondo avranno una grande importanza per le generazioni future. Come consulenti filantropici, come organizzazioni, come esperti è importante essere pronti a supportare chiunque ne avrà bisogno o desiderio a “far bene il bene”. La filantropia è un importante strumento di redistribuzione della ricchezza e per favorirla è importante lavorare sul creare maggiore consapevolezza su tutto ciò che il Terzo settore fa e può fare: dai servizi come i nidi a quelli per la tutela dell’ambiente e la valorizzazione del patrimonio artistico. Quel che vediamo è che spesso gli individui non sanno chi offre quei servizi né di cosa o di quanto hanno bisogno per continuare a garantirli. Oppure incrociamo donatori con una visione ristretta e limitata di cosa è il non profit, che non si rendono conto della sua rilevanza in termini di occupazione, di entrate e di grande diversità delle attività svolte. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito gli individui, non avendo un sistema di welfare molto esteso, comprendono meglio l’importanza della responsabilità individuale e delle donazioni per il benessere collettivo. Vorremmo che anche in Italia le aziende, gli individui più benestanti, ma anche tutti i cittadini in generale sviluppassero la stessa consapevolezza e contribuissero maggiormente a sostenere gli enti che si fanno carico delle esigenze sociali che lo Stato non riesce a soddisfare. Quindi per sostenere la filantropia bisogna capire che la responsabilità del benessere collettivo è di tutti e superare l’idea di un Terzo settore fatto solo di dilettantismo.

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