Famiglia

Figli di un Van Gogh minore

Giovanni Fenu e Gianfranco Baieri oggi sono pittori affermati. Ricoverati da decenni in ospedale psichiatrico, hanno cominciato a frequentare una scuola di pittura fino a scoprirsi artisti

di Mirella Pennisi

Folgorato da Van Gogh ha bruciato tutti i suoi dipinti precedenti. Ma non è in manicomio per questo. Giovanni Fenu da 35 anni si trova nell?8° padiglione del manicomio di Roma – oggi comunità ?Peter Pan? – per un dolore così grande che ancora oggi non vuole raccontare. Aveva 25 anni e dipingeva fin da quando, bambino, aiutava la famiglia al banco di frutta e verdura. Oggi Giovanni Fenu di anni ne ha sessanta. Scarabocchiava volti perfetti sulla carta marrone delle buste. Suo padre si vergognava di lui, lo picchiava anche. Voleva che la smettesse di pensare solo a disegnare. Quella robaccia non gli avrebbe dato da mangiare… «Quando cominciai a dipingere sulla tela avevo 13 o 14 anni. Mi accorsi che i miei quadri sparivano. Mio padre mi raccontava che li aveva persi, li aveva rotti. Ma io sapevo che se li vendeva… Sa qual è stato il più grande dolore della mia vita?» Quello che ti ha portato qui… «No, è stato quando mi trovavo già qui. È stata la sua morte. La morte di mio padre». E si siede, lo ripete all?infinito. Non come un pazzo. Come un uomo libero di esorcizzare un grande dolore perché, tanto, è già in un manicomio e non ha più nulla da perdere… La sua stanza, un loculo di tre metri per tre, è stipata di quadri. Li tiene con sé per poi decidere di venderli solo quando si è stancato della loro compagnia. Giovanni Fenu è ormai un pittore quotato, ma quel sottile ricatto che è il manicomio, anche vestito di nuovo, lo costringe ad accettare le offerte (stracciate) di infermieri e dottori. «I pennelli, le tele, sono tutta la mia vita. Se me li togliessero sarei un uomo morto». Lo dice tra i denti e sottovoce. Forse nessuno lo farà mai. Ma trent?anni di ospedale psichiatrico insegnano a obbedire e a temere le ritorsioni.

Gianfranco, il grande centro
Ma Giovanni non è il primo né l?unico. In quel reparto qualcun altro aveva cominciato prima di lui. Cinquantadue anni di manicomio, figlio illegittimo e segreto di una madre senza cuore (ancora viva), Gianfranco Baieri è stato lasciato qui all?età di sei anni. Non è matto oggi, non lo è mai stato, sua madre scambiò il Santa Maria della Pietà per un orfanotrofio. E lui non ne è più uscito. È andato a scuola, ha lavorato gratis nelle pulizie fin dall?età di 12 anni, ha slegato malati legati ed è diventato il centro di gravità, il punto di riferimento di questo reparto: il grande centro, se ci riferiamo alla stazza.

Gianfranco non vuole andare via dal Padiglione. Qui c?è tutta la sua vita, ci sono la sua mostra permanente, la sua pittura (tecnica del puntinato e delle ?colate? di colore), la sua camera, i suoi alunni (sei vengono tutti i giorni ad imparare), il suo lavoro residuo (l?amministrazione della cooperativa di pulizie dell?ospedale). Qui c?è il suo odio per quella madre che non ha mai più voluto vedere. Cosa dipingi? «Allegria. I miei quadri sono sorrisi». E te ne regala uno. Possibile che tu non voglia uscire? «Uscirò quando lei sarà morta». Sta scrivendo un libro intitolato ?Dall?infanzia all?infinito?: «Quello sarà l?infinito». C?è qualcosa di straordinario in quest?uomo bambino che ha attraversato il mondo della pazzia senza paura, né complicità.

Il dottor Pennello
Tutto cominciò dieci anni fa, quando una volontaria francese, molto carina, fu richiesta da una scuola di pittura come modella. Lei disse di sì, «ma dovranno essere ammessi anche i miei amici». Quel giorno Giovanni Fenu stupì tutti per la velocità e la precisione con cui fece quel ritratto. E dire che non voleva. Si vergognava troppo. Poi si avvicinarono gli altri degenti. Tutti si cimentarono. Gettare i propri sogni, incubi o fissazioni sulla tela divenne una terapia quasi infallibile.

Fu così che anche Giuseppe Panzica (sordomuto con 44 anni di manicomio sulle spalle e nessuna diagnosi) iniziò a ?raccontare? le sue città: dapprima i cantieri, le carriole, le gru; poi muri senza strumenti del lavoro. Nascono così scuole, case, chiese, grattacieli. Fu l?inizio anche per Gino Vespa (prima zingaro, poi tossicodipendente, carcerato, infine matto) che cominciò a colorare di tinte sgargianti i suoi deliri, mostri, draghi e animali feroci; e per Ivano Mattocci (32 anni di manicomio) che spiana sulla tela pesci colorati e si firma Lauretto Colussi o Gion Vein (sognando forse il selvaggio West). Al gruppo si aggiunge nel 1990 Pasquale Filacchioni (31 anni di manicomio) che dipinge rigorosamente in bianco e nero pietre spaccate e animali, preistorici e domestici.

A due passi dal grande parco del manicomio, l?Istituto Fermi ha offerto i suoi sotterranei perché Fenu e i suoi amici pittori possano avere uno spazio per lavorare. Fenu, nove suoi amici dello stesso reparto e altri quindici nuovi malati (nuovi perché ammalati dopo il ?78), riuniti nella Cooperativa Piedi Neri, hanno colorato i muri, una volta verde-ospedale, e vi hanno allestito un laboratorio di pittura, uno di ceramica, un locale per una mostra permanente. Da settembre a giugno il laboratorio ospita 25 pittori, ma anche chi vuole aiutare o provare su di sé gli effetti benefici della ?terapia?.
«Sì, alcuni di loro possono dirsi migliorati attraverso questa forma di espressione, ma quello che li ha guariti veramente è stato il ?mercato?». Giancarlo Tissi, ex infermiere, poi responsabile e ideatore del gruppo dei pittori («Non volevo più dipingere» dice Fenu. «E? stato lui a convincermi»), è presidente della cooperativa Piedi Neri. «Giovanni vende molto. Baieri ha addirittura degli estimatori… se solo smettesse di regalare i quadri. Ma anche gli altri. Vendono tutto quello che esponiamo». Perché di mostre ne fanno molte. E si capisce che il signor Giancarlo ha questa idea fissa. «Vada per l?espressione, la realizzazione, ma io voglio che sentano l?importanza del loro lavoro. Che diventa evidente solo quando il quadro si vende…». Così ogni settimana girano il Lazio, quando non sono invitati a Imola, a Monza. Hanno esposto nella Galleria di via Sistina a Roma. E ora ne stanno preparando una al Garden House (viale Tiziano 2) sempre nella Capitale. Non è stato facile. Questo per Giancarlo è un avvenimento, ha voluto prendere i quadri migliori e Giovanni ha sofferto molto, troppo, quando gli hanno portato via i suoi dalla stanza. Ha urlato così tanto, che ora, mentre cerchiamo di intervistarlo, non riesce a parlare. Torneremo.

L’opinione di Emilio Tadini
Quella linea sottile
Ho lavorato con diversi pazienti dell?ospedale psichiatrico di Bergamo e devo ammettere che è stata un?esperienza davvero bella, emozionante. Ho capito che cosa vuol dire che la pittura è comunicazione: molti malati, chiusi in se stessi, hanno potuto comunicare con l?esterno semplicemente con una matita o un pennello. La pittura è diventata per loro l?espressione senza parole. Ammetto che all?inizio avevo paura a intrattenermi con loro, temevo di fare il maestro saccente. Ma sono stati loro a mettermi a mio agio, e i miei dubbi si sono volatilizzati. Forse parlare della pittura come terapia per le malattie mentali è un po? eccessivo, ma è fuor di dubbio che per molti pazienti di Bergamo sia stata l?occasione di dire al mondo qualcosa di molto intimo, che non avevano mai detto a nessuno. In particolare mi ricordo di un ragazzo che era totalmente silenzioso e come estraniato dalla realtà. Vedendo i suoi compagni disegnare, ha preso anche lui una matita e ha tracciato sul foglio una semplicissima riga. La pressione del tratto era davvero straordinaria. In fondo la pazzia ha percorso tutta la storia della pittura, pur essendo a volte un mito romantico. È il miracolo di usare anche la follia come materiale per disegnare e dipingere.

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