Fundraising

Ferragni, la pink beneficenza senza trasparenza

Luisa Bruzzolo, direttrice generale di Lilt Milano e fundraiser dell’anno 2023 reagisce al caso Ferragni-Balocco con una riflessione sulla necessità che le campagne di raccolte fondi siano costruite con i professionisti del settore

di Antonietta Nembri

Il pandoro-gate, come qualcuno l’ha definito e su cui si dibatte in questi giorni rischia di diventare una telenovela. Ma a ben guardare il caso Ferragni-Balocco è qualcosa che sta interrogando soprattutto il mondo di chi le raccolte fondi le fa, non solo con successo, ma nel modo giusto, ma anche in maniera etica e corretta. 
Stiamo parlando del mondo dei fundraiser che in questi giorni abbiamo ascoltato. 

Un mondo cosciente del fatto che «quando escono degli scandali a farsi male è tutto il settore. Anche se quello che è stato fatto è un “errore” che nessun professionista avrebbe mai fatto».

A dirlo è Luisa Bruzzolo, dg di Lilt Milano e ultima vincitrice dell’Italian Fundraising Award. «Il fatto è che la comunicazione che era stata veicolata sembrava raccontare un caso di related marketing, invece si trattava di una donazione una tantum slegata dalla vendita».

Come avrebbe dovuto essere costruita l’operazione?

Innanzitutto quando si costruisce un’iniziativa di co-marketing si mette un obiettivo, lo si comunica con trasparenza al consumatore. Invece qui la comunicazione faceva pensare che per ogni pandoro venduto ci fosse una quota che andava al Regina Margherita. Invece il consumatore non contribuiva a nulla. La donazione era già stata fatta mesi prima dall’azienda.

Che cosa ci insegna questa vicenda, ma a ben guardare anche quella emersa delle uova di Pasqua costruita sulla stessa falsariga?

Che operazioni di questo tipo vanno costruite assieme a un professionista, perché di per sé non è sbagliato coniugare vendite e attività sociale, ma deve essere fatta bene e a vantaggio di tutti. Servono trasparenza ed equilibrio. Qui c’era un tale disequilibrio nelle cifre, quella donata e il cachet dell’influencer, che alla fine il Regina Margherita è stato strumentalizzato. 

Un fundraiser professionista cosa avrebbe fatto?

In casi simili si mettono degli obiettivi, ci deve essere un minimo garantito di fondi, si fa attenzione a un bilanciamento tra la donazione dell’azienda e il contributo del consumatore. L’operazione deve essere costruita bene, altrimenti si rischia un effetto boomerang.

Cioè?

In tutta l’operazione pandoro qualcuno del Regina Margherita che si occupa di raccolta fondi ha parlato con la Balocco o l’influencer? L’azienda e Ferragni hanno a livello comunicativo messo in piedi una raccolta fondi senza un fundraiser professionista e il risultato è sotto gli occhi di tutti perché un conto è fare l’influencer o il testimonial e un conto è fare il fundraiser. Sicuramente ci sarebbe stata più trasparenza.

La conseguenza immediata?

Un aumento di diffidenza nei consumatori. Non è completamente un male che i consumatori diventino più maturi di fronte a pubblicità ingannevoli. Ma qui chi si rischia che le persone non si fidino più e non donino…

Se proprio dovessimo tirar fuori un aspetto positivo da tutta questa faccenda?

È apprezzabile che Ferragni abbia chiesto scusa e abbia proposto di riparare. Ma spero che i consumatori diventino più esigenti in fatto di trasparenza e che a questa richiesta ci sia una risposta sia delle aziende sia del mondo non profit.

Il caso Ferragni non è la fine del brand activism e del related marketing…

Si devono costruire meglio le operazioni legate alle vendite di un prodotto per sostenere una causa, si dovrebbe porre fine alle strumentalizzazioni e se proprio volete fare brand activism fatelo bene in modo etico e professionale

In apertura Chiara Ferragni a Sanremo 2023 – Foto Matteo Rasero/LaPresse

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