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Femminicidi, basta con i mostri e le mele marce

Raptus, mostri, mele marce: quando si parla di violenza di genere, la narrazione punta ancora su questi elementi. Vera Gheno: «Sono tutti modi per creare un effetto di alterizzazione: mettere quell'unico colpevole fuori dalla società civile. Continuiamo a non prenderci quella responsabilità che dovremmo prenderci per decostruire questi modelli»

di Grisha Saini

Quello della violenza sulle donne è un fenomeno che continua a riempire le notizie di cronaca: l’ultimo episodio a Nuoro, dove Roberto Gleboni ha sparato a moglie e figli, poi a un vicino. I media che hanno il delicato compito di narrarlo, devono particolare attenzione al linguaggio utilizzato, per evitare di veicolare stereotipi che nutrano concezioni distorte del fenomeno. Si legge ancora troppo spesso infatti di femminicidi rappresentati come tragedie impreviste, inspiegabili e inevitabili, causate da raptus di gelosia, da un momento di follia, per mano di uomini definiti come mostri, pazzi, bestie. 

La scelta di espressioni di questo tipo non attua una modalità di narrazione che, delegando la colpa a qualcosa di improvviso e incontrollabile, toglie responsabilità all’autore del reato? Non è pericoloso rappresentare l’omicida come un individuo anomalo rispetto alla società, negando quindi che quello della violenza di genere sia un problema sistemico? Ne parliamo con la sociolinguista Vera Gheno, che si occupa di comunicazione digitale, questioni di genere, diversità e inclusività. 

I media italiani usano un linguaggio corretto per parlare di violenza di genere e femminicidi? 

Spesso no: nonostante esistano delle linee guida che dovrebbero aiutare chi deve trattare questi temi, spesso si veicolano stereotipi. Lo si vede in maniera deflagrante quando si parla di femminicidi, anche solo per una tendenza a usare condizionali quando si parla dei presunti colpevoli, e molto meno quando si parla invece delle vittime. In generale, spesso si mettono in campo delle narrazioni eroiche quando si parla delle donne: per esempio, quella che discute il dottorato con le contrazioni da parto. C’è questa idea della donna che deve essere eroina per fare le cose. Se ne parla solo quando è eroica o quando è morta. 


Cosa sta alla base di questo tipo di narrazioni? 

Vari fattori: in Italia si acquista fin dalla scuola l’abitudine a una scrittura barocca e arzigogolata e si crede che questo sia il modo giusto di usare la lingua. Questo, secondo me, ha conseguenze sul mondo del giornalismo: c’è molta difficoltà ad adottare uno stile come quello anglosassone, molto asciutto e scevro da aggettivi o privo di subordinate. In secondo luogo, c’è il capitalismo dell’informazione: l’idea del guadagno si riverbera anche nell’ambito giornalistico, dove spesso, invece che prevalere la volontà di informare, prevale quella di fare click-baiting, di attirare il pubblico alla lettura del proprio testo; per riuscirci si scelgono le narrazioni più sopra le righe. In terzo luogo, agiscono sicuramente anche i pregiudizi, più o meno consapevoli, che ci portiamo dietro in quanto membri di una società fondamentalmente di stampo patriarcale. Per esempio, quando si parla di violenza di genere, c’è molta resistenza a riconoscere che si tratta di un problema sistemico, quindi si mette in atto una narrazione che isoli la “mela marcia”: il femminicida “ha avuto un raptus”, “ha momentaneamente perso la testa”, è “il mostro”. Sono tutti modi per creare un effetto di alterizzazione, di othering: mettere quell’unico colpevole fuori dalla società civile. Questo si oppone al riconoscimento dei problemi strutturali, per esempio della relazione fra i generi. Ci sono esempi ancora troppo comuni di maschilità tossica e pochi esempi positivi di altre maschilità. C’è quindi un sostrato culturale e sociale che in alcuni casi estremi porta anche alla conseguenza finale del femminicidio, ma che in generale serve da “lubrificante” per casi di violenza di genere di varia gravità. 

C’è molta resistenza a riconoscere che la violenza di genere sia un problema sistemico, quindi si mette in atto una narrazione che isola la “mela marcia”. Sono modi per creare un effetto di alterizzazione: mettere quell’unico colpevole fuori dalla società civile

Vera Gheno


Che percezione ha il pubblico di questo tipo di narrazioni e che effetti possono avere queste ultime? 

Io credo che ci sia una crescente attenzione e consapevolezza nei confronti di questo tipo di narrazioni. È pur vero che faccio parte di una bolla, quindi sicuramente la mia è una visione deformata. Nel mio ambiente se ne parla molto, però tutte le volte che mi è capitato di sollevare una discussione rispetto a com’era stato trattato un femminicidio o una notizia, il pubblico fuori dalla mia bolla mi ha spesso contestata dicendo che quello che sostenevo non era assolutamente vero e che non c’erano difetti di narrazione o bias, ma che era semplicemente una narrazione giornalistica espressa in modo da rendere appetibile la notizia. Quindi, anche se stesse crescendo la consapevolezza rispetto a queste distorsioni narrative, sicuramente non è abbastanza alta da generare un effetto di moral suasion su chi queste notizie le scrive. Questo mancato cambiamento delle modalità di narrazione ha come effetto il rischio di perpetuare pregiudizi di genere: se si continua a leggere di mostri e mele marce, continuiamo a non prenderci quella parte di responsabilità che dovremmo invece prenderci per cercare di decostruire questi modelli di potere di stampo patriarcale.  

Se si continua a leggere di mostri e mele marce, continuiamo a non prenderci quella parte di responsabilità che dovremmo invece prenderci per decostruire questi modelli


Quali sono buone pratiche da applicare nella comunicazione di cronache di violenza di genere? 

Esiste il Manifesto di Venezia che dà delle linee guida. Per uscire dal loop si deve iniziare a scrivere in maniera differente. Ovviamente, si deve tener conto che, soprattutto se si è giovani praticanti, si entra in un sistema in cui può essere che qualcuno che ha più potere ci dica di calcare di più la mano per attirare alla lettura. Può quindi non essere facile mettere in pratica le best practice. Secondo me bisogna parlarne: più si protesta contro certi modi di narrare la violenza di genere, più si può creare un clima di riprovazione tra i pari che può portare anche le testate a cercare dei percorsi più virtuosi nella comunicazione. 


Crede che con le nuove generazioni ci sia la speranza di una maggiore sensibilità su questi temi? 

Sono più permeabili e attente a certi aspetti della comunicazione, ma è anche vero che gli adulti fanno di tutto per soffocare questa attitudine al cambiamento. Io ho molta fiducia nelle giovani generazioni, spero che rimangano più attente, se non altro perché vivono in un mondo che è molto più complesso da un punto di vista cognitivo rispetto a quello in cui sono cresciuta io: forse qualcosa di questa complessità le porterà a prestare più attenzione al modo in cui comunicano anche quando avranno una voce pubblica, per esempio sui giornali. 

Io ho molta fiducia nelle giovani generazioni, che vivono in un mondo molto più complesso da un punto di vista cognitivo rispetto a quello in cui sono cresciuta io. Questo le porterà a prestare più attenzione al modo in cui comunicano


Ha dei consigli per i giovani che diventeranno professionisti della comunicazione? 

Studiare tanto, perché, se si ha un background solido, si riesce anche a resistere rispetto a qualcuno che magari ti dice di fare una certa cosa sulla quale dissenti, essendo in grado di citare anche delle fonti per giustificare la propria disapprovazione di una certa pratica o di una certa cosa. Dopodiché, si diventa professionisti con la sofferenza: io penso che i giovani professionisti della comunicazione si troveranno in mille situazioni in cui ne sanno di più di chi hanno sopra, ma sono comunque costretti a fare quello che gli viene detto di fare, e questo purtroppo è strutturale in tutti i luoghi di lavoro che hanno una piramidalità di potere. Però si spera che quando arriveranno loro in cima alla piramide, saranno diversi, un po’ migliori di noi.

Foto: Andrea Roccabella/Pour Parler

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